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Roma-Torino 3-2. Tre minuti.

L’ho scoperto, finalmente.

Quello che ho temuto ci fosse negato da un ineluttabile destino.

Quello che troppe volte c’è sfumato davanti agli occhi, in un attimo.

Quello che ciclicamente proviamo a ricercare lontano, nell’inossidabile “proyecto” tinto di blaugrana o nell’operoso e “testaccino” Leicester. Aggrappati alle sfumature malinconiche del nostro passato, per sentirci parte – anche piccola – di una felicità “altra”.

Quello che in molti c’hanno descritto, sorridenti e irridenti, prima di indicarci i provinciali confini del nostro limitato orizzonte. Quello che hanno provato a spiegarci, saccenti e presuntuosi, puntando il dito contro i nostri sentimenti da Raccordo Anulare.

Ieri però l’ho scoperto, finalmente, com’è ‘na gioia. In tre minuti.

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E questa è la differenza che c’è tra noi, e tutti gli altri.

In viaggio, Gerusalemme e Palestina #1.

Le mura parlano e raccontano storie. E’ probabilmente la considerazione più banale (perlomeno tra le più banali) che storici o archeologi possano fare. In alcuni casi, poi, non raccontano solo storie, ma raccontano la Storia. E’ così per quelle imponenti che cingono la città vecchia di Gerusalemme, e per i segni lasciati dalla guerra di indipendenza sulla Porta di Sion. Per le pietre dell’antica Gerico nel Tell es-Sultan e per quelle dell’inespugnabile fortezza di Masada. Parlano di Dio i blocchi di pietra bianca del muro del pianto, i marmi della moschea El-Aqsa, le maioliche della Cupola della Roccia e il travertino di Betlemme della Basilica della Natività. Parlano di una strage i resti romani del Palazzo di Erode. Per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina non si può non lasciare la parola alle mura.

Per raccontare il mio viaggio a Gerusalemme e in Palestina, quindi, non posso non cominciare da un muro.

Betlemme, Bansky

Da questo mostro di cemento armato, filo spinato e militari. Alto fino a nove metri (nove metri, 2 volte il muro di berlino) con terminal e porte di sicurezza (i “check-point” spacciati per “controlli di sicurezza” ma utilizzati come una vera e propria frontiera) che immettono nella città da tutti i punti cardinali.

Un muro che accerchia Betlemme e la divide da Gerusalemme. Che divide, quindi, i luoghi che il cristianesimo venera come quelli della natività di Gesù da quelli della morte e della resurrezione. Che divide “chirurgicamente” due città così indissolubilmente legate da essere – per credenti, atei, religiosi o laici – una l’imprescindibile appendice dell’altra.

Betlemme, il muro.

Un muro che nel troppo superficiale immaginario comune separa gli israeliani dai palestinesi. Ma che, in realtà, separa quartieri e città. Palestinesi da palestinesi. Che smembra famiglie, divise – in tantissimi casi – dal colore della Hawiya, la carta d’identità. Verde quella di chi risiede nei Territori occupati; Blu quella di chi risiede a Gerusalemme e che, pur non avendo passaporto, può frequentare scuole, ospedali, servizi sociali. Marcare differenze nelle differenze, un metodo vecchio come il mondo. Divide et Impera, d’altronde.

Un muro, le cui porte dettano i ritmi delle giornate. Come le preghiere. Che nel migliore dei casi, fin dall’alba costringe a file di ore per i controlli di sicurezza chi, permesso di lavoro e documento alla mano, da Betlemme si deve spostare a Gerusalemme. Oppure, in caso di chiusura – decisa in modo assolutamente unilaterale – a mettersi in cammino per ricominciare da capo e mettersi in fila in un altro varco, in un altro check point.

Rientro in Palestina

Allora, per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina, non posso non cominciare dalla guida Khalid. Che ci porta in giro nei dintorni di Betlemme e ci chiede se è bello dormire a Gerusalemme (distanza 8 – otto!! – chilometri). Lo chiede a noi. Perché a lui, palestinese cristiano, non è permesso. A Gerusalemme ci può andare solo a Natale o a Pasqua. E deve tornare la sera. Sempre che le porte del muro siano aperte. Sennò, cristiano o no, “sticazzi” del tuo pellegrinaggio.

Per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina, non posso non cominciare da Sofia che, il muro, vuol farcelo vedere per bene. Dall’alto. E quando si accorge che a mia moglie è venuta la pelle d’oca (perchè le donne sono più sensibili, io avevo il voltastomaco) le dice “pensa che questa è la mia vita”.

Per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina non posso non cominciare dalle opere di Bansky. Che non abbelliscono. Perché niente può abbellire una sfregio così grande. Ma di certo rendono chiaro, evidente, come questo muro sia uno strumento d’attacco. Non di difesa.

Betlemme, Bansky (Instagram)

Che poi, che per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina si dovesse cominciare da un muro, non era neanche difficile immaginarlo. Basta andare nella basilica di Santa Maria in Trastevere e guardare il mosaico dell’abside. “Hierusalem”, si legge, accanto alla rappresentazione di una città cinta da torri e da mura. Appunto.

Da una porta in queste mura escono sei agnelli. E dall’altra parte del mosaico, da Betlemme – appunto – ne escono altri sei. Tutti si spostano  simmetricamente e contemporaneamente verso il centro, verso l’Agnus Dei. Sempre che i check-point siano aperti.

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mosaico absidale

Gerusalemme e Palestina, Luglio 2015.

La pubblico.

La pubblico, per me.

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Per fermarmi a pensare. Mi sembra quasi di sentirlo, il rumore del mare. E quello dei passi attutiti dalla sabbia. Mi sembra di vederli, i gesti cauti di chi ha dovuto recuperare quel corpicino. Preso in braccio. Una mano a sostenerne le gambe e l’altra, si può intuire, a sorreggerne il viso. La pubblico perché sembra una “Pietà” questa foto, nell’accezione meno artistica e più disperata.

La pubblico per impormi di pensare a lui. Aylan Kurdi. Che con la mamma e il fratello più grande Galip provava a raggiungere la Grecia, da Kobane.

La Grecia. Quel paese che poteva pure fallire, e tanti saluti.

Da Kobane. Quella città che ha resistito, combattuto e respinto l’Isis mentre noi, l’Occidente, ci scandalizziamo ad ogni gola tagliata, ad ogni tempio distrutto, ma poi rimaniamo a guardare.

La pubblico per fermarmi a pensare a un bambino, uno qualsiasi, di tre anni. Per cui Renzi, Merkel, Junker, Euro, sono solo parole senza senso. Ma che conosce bene miseria, morte e guerra.

La pubblico per me. Ma se si volessero fermare a pensare anche quelli che si sgolano a chiedere ruspe, respingimenti e cannoni, quelli del rimandiamoli a calci a casa loro, quelli del je pagamo pure er telefonino, quelli del gli diamo 100 euro al giorno mentre gli italiani muoiono di fame, quelli del li mettono nelle ville e negli alberghi a 4 stelle, quelli dei link da notixweb, non sarebbe tempo sprecato.

Perché Aylan Kurdi, morto annegato mentre cercava di raggiungere la Grecia da Kobane, ci dà ancora una volta la possibilità fermarci a pensare, e di smettere di fare schifo.

Roma-Juventus 2-1. Kalokagathìa.

Kalós kai aghatós. L’indissolubile identità tra bellezza e virtù che distingue l’uomo nobile. Una bellezza unica, irriproducibile, e per questo coinvolgente e totalizzante. Che conquista allo stesso tempo la superficie dei sensi, la profondità dell’anima e la complessità della mente.

Una bellezza che si irradia nello spazio e nel tempo.

Quello spazio e quel tempo sospesi, in particolare, tra le parole “colpo di testa di Bonucci” e  “Szczesny ci arriva con la punta delle dita”.

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Kalós kai aghatós.

Verona-Roma 1-1. Ricominciamo, pareggiando.

Ricominciamo, finalmente.

E ricominciamo sperando di vedere una Roma nuova. Quella Roma 3.0 che invochiamo da Febbraio, dopo che gli aggiornamenti del software tentati da Garcia e la nuova App “Doumbia centravanti” installata da Sabatini si sono rivelati fallimentari come un Windows Vista qualsiasi. Però ricominciamo con una formazione che, anche al meno smanettone, risulterebbe subito piena di bug. Ricominciamo con Dzeko e Salah nel tridente d’attacco, è vero. Ma pure co’ Gervinho. Ricominciamo con Castan (bentornato) al centro della difesa. Ma pure co’ Torosidis raccattato a sinistra.

Ricominciamo con il centravanti costretto ad agire da regista offensivo e i due attaccanti laterali obbligati a giocare la palla con le spalle alla porta per ovviare all’assenza di una fonte di gioco che possa verticalizzare rapidamente. E giocando la palla spalle alla porta Gervinho e Salah sono molto meno pericolosi. E “molto meno pericolosi” è un gentile eufemismo per evitare di cominciare la stagione con una sequela di madonne. Oh, lo dico chiaro e tondo, tanto siamo tra amici. Se questo è il gioco che Garcia ha intenzione di proporre come alternativa a Totti, ammazzatemi. Almeno smetto di soffrire.

Ricominciamo con Hallfredsson trasformato nel perfetto mix tra Roy Keane e Juan Sebastian Veron. E con Jankovic che aspetta la Roma per svegliarsi, ricordarsi di essere una grande promessa, segnare e poi precipitare di nuovo in letargo (almeno fino alla 1° giornata di ritorno). E ricominciamo con Florenzi che gioca contemporaneamente da terzino, ala e interno, che corre, copre, contrasta, spazza, tira e – già che c’è – segna pure.

Ricominciamo con le sostituzioni e gli accorgimenti tattici fatti a risultato compromesso. Fuori De Rossi, davvero troppo lento e impreciso nel far ripartire l’azione (non che Keita abbia fatto molto meglio, ma questo passa il convento). Pjanic spostato come vertice alto di centrocampo anziché interno, ruolo nel quale veniva sovrastato fisicamente anche da Souprayen (che più che un terzino sembra un complesso multivitaminico). E ricominciamo anche con l’intoccabile Gervinho.

Ricominciamo con un 1-1 striminzito, un’ultima sostituzione da fare a 10′ dalla fine, con Totti e Ljajic in panchina, e con Ibarbo in campo come mossa della disperazione. Bisognava allargare l’azione, ha spiegato il tecnico nel dopo-partita. E laddove avevano fallito Salah, Gervinho e Iago Falque, doveva riuscì Ibarbo. Ibarbo. I-Bar-bo.

E infatti, ricominciamo pareggiando.

PS. Ricominciamo anche con l’inno “O Generosa”, composto per la Serie A da Giovanni Allevi. Che scopro essere l’orrida musica che accompagnerà l’inizio delle partite per tutto il campionato, e su cui hanno glissato signorilmente anche i telecronisti di Sky. Ad un primo ascolto fa rimpiangere le marcette suonate in classe col flauto alle medie. Perfino i cori “RomaRomaVaffanculo” con cui i fini pensatori scaligeri l’hanno sovrastato sembravano musicalmente più appropriati.