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Milano, la Colonna Infame.

Nel cuore della movida milanese, a pochi passi dalle “colonne di San Lorenzo”,  una scultura in bronzo (realizzata nel 2005 dall’artista Ruggero Menegon) ricorda un episodio risalente all’epidemia di peste del 1630. Sì, proprio quella raccontata da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”.

La Colonna Infame, Ruggero Menegon, bronzo, 2005.

Siamo all’angolo tra via Gian Giacomo Mora e Corso di Porta Ticinese. Oggi, tra negozi di abbigliamento, piccoli locali e qualche canapa-shop, il continuo via vai di giovani e turisti anima l’ampio e suggestivo piazzale antistante la Basilica di San Lorenzo Maggiore. All’epoca dei fatti in una delle umili abitazioni, quelle che le cronache definivano “nient’altro che catapecchie”, edificate nel corso del tempo proprio lì, intorno al quadriportico ed al colonnato della Basilica, vivevano le prime protagoniste della storia, Caterina Rosa e Ottavia Boni. Le due popolane, già di primo mattino affacciate alla finestra, dichiararono alle autorità di aver visto un uomo, con il viso nascosto da un cappello e un mantello nero, sfiorare i muri delle case lasciando delle macchie oleose e giallastre. 

In pochissimo tempo la paura della terribile epidemia e le superstizioni (esasperate dalla diffusione della malattia, a Milano i morti arrivarono a 64.000) trasformano una semplice “voce” in una certezza, e un uomo dall’andatura barcollante nel colpevole dei contagi: quello che le due donne avevano visto all’opera era senza dubbio un untore.

Le indagini condotte dal Capitano di Giustizia, tanto rapide quanto superficiali, portarono all’arresto del Commissario di Sanità Guglielmo Piazza. Semplici macchie d’inchiostro nero sulle sue mani, scambiate per i resti del misterioso unguento pestilenziale, bastarono a provare l’accusa e giustificare il ricorso alla tortura. 

Ai giudici non interessavano i fatti, né le spiegazioni razionali. A loro serviva un capro espiatorio su cui far sfogare la rabbia del popolo, sempre più impotente di fronte al propagarsi incontrollato della peste. Così, nella speranza di aver salva la vita, Piazza provò a fornirglielo, accusando a sua volta Gian Giacomo Mora. Barbiere di professione, anche lui abitava e lavorava nella zona di San Lorenzo. E tra i balsami, i saponi e i medicamenti tipici del mestiere (come tutti i barbieri del suo tempo svolgeva infatti anche funzioni di primo soccorso), conservava un preparato di sua creazione per lenire, o che quantomeno avrebbe dovuto lenire, le ferite degli ammalati. Quando le guardie nel corso della perquisizione della sua bottega ne trovarono i resti in una bacinella, si rese conto di non avere più scampo. Torturato per ore, pur di porre fine alle sofferenze pronunciò le parole che i giudici volevano sentire: a ungere i muri e diffondere la peste erano stati lui e Piazza.

Condannati a morte, una macabra processione li scortò dal Palazzo del Capitano di Giustizia sino al luogo delle esecuzioni, l’attuale piazza Vetra. Durante il tragitto furono tormentati con ferri roventi, e davanti alla bottega del Mora ai due fu amputata la mano destra. Quindi furono legati alla “ruota” e colpiti senza pietà. Agonizzarono, davanti alla folla che si era radunata nella piazza, per sei ore. Poi, i corpi vennero bruciati e le ceneri gettate nel canale della Vetra.

La casa del Mora si spiani, et in quel largo si drizzi una Colonna, la quale si chiami Infame et in essa si scrivi il successo, né ad alcuno sia permesso mai più riedificare detta casa (da “La sentenza data a Guglielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora”, 1631).  L’abitazione-bottega del Mora fu distrutta e sul posto, oltre alla Colonna, come monito ai cittadini fu apposta una lapide (oggi conservata al Castello Sforzesco) con la descrizione degli avvenimenti e le atroci pene inflitte ai colpevoli.

Lapide della Colonna Infame, Milano, Castello Sforzesco (Corte Ducale)

Qui dov’è questa piazza sorgeva un tempo la barbieria di Gian Giacomo Mora il quale congiurato con Guglielmo Piazza pubblico commissario di sanità e con altri, mentre la peste infieriva più atroce sparse qua e là mortiferi unguenti, e molti trasse a cruda morte. 

Questi due adunque giudicati nemici della patria, il senato comandò che sovra alto carro martoriati prima con rovente tanaglia e tronca la mano destra si frangessero colla ruota, e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati, poscia abbruciati e perché nulla resti d’uomini così scellerati, confiscati gli averi si gettassero le ceneri nel fiume.
A memoria perpetua di tale reato questa casa officina del delitto il Senato medesimo ordinò spianare e giammai rialzarsi in futuro, ed erigere una colonna che si appelli infame. 

Lungi adunque, lungi da qui buoni cittadini, che voi l’infelice infame suolo non contamini.

Dell’originale “colonna infame” non abbiamo nessuna traccia. Nel 1778, infatti, divenuta simbolo delle atrocità commesse all’epoca dalla “giustizia”, fu rimossa.

Dell’episodio, e del processo a Mora e Piazza, abbiamo invece un’ampia documentazione. Su tutte, il saggio “Storia della Colonna Infame” di Alessandro Manzoni (pubblicato in prima edizione nel 1840 come appendice a “I promessi sposi”). Molto più della cronaca di un episodio storico. Un’accusa, diretta e attualissima, all’ipocrisia, alla codardia, all’ignoranza, al pregiudizio e alla superficialità umana.

Sarebbe bello se, oggi, al monumento di Menegon, venisse dato maggior risalto. Se il punto in cui sorgeva la casa del Mora non fosse lasciato a confondersi tra banche, negozi e locali. E se al suo fianco fosse riportato questo breve passo, tratto dall’introduzione dell’opera:

L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli…

Caracalla e la Constitutio Antoniniana. Civilizzazione o demagogia?

Busto di Caracalla al Museo Archeologico di Napoli

Con un editto del 212 a.C., la Constitutio Antoniniana, l’imperatore Marco Aurelio Severo Antonino Pio Augusto, noto con il soprannome di Caracalla, stabiliva la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, ad eccezione dei dediticii (i non romani formalmente privi di ogni altra appartenenza cittadina). Ancora oggi, la critica storica si divide nell’analisi. Fu un’azione civilizzatrice o un provvedimento demagogico? Un’affermazione di giustizia sociale o una sanzione formale del dispotismo? Caracalla fu solo l’uomo spietato e crudele descritto da Niccolò Machiavelli o un accorto uomo di stato? 

Il testo, seppur lacunoso, riportato sul Papiro di Gissen sembra suggerire un’interpretazione di grande lungimiranza. A muovere l’imperatore furono la necessità politico-amministrativa di evitare i ricorsi al sovrano per questioni riguardanti il possesso del diritto di cittadinanza, e la volontà di assimilare nel culto le divinità tradizionali e quelle introdotte nel Pantheon romano da ogni provincia in nome del sincretismo religioso. 

L’editto del 212 può quindi essere considerato il compimento di un processo politico, sociale e giuridico ormai maturo. Usando le parole dello storico inglese Howard Hayes Scullard: nel 212 le antiche distinzioni tra italici e provinciali, tra conquistatori e conquistati, tra popolo padrone e sudditi erano ormai cadute, e l’Impero diventato una grande comunità di popolazioni diverse per lingua e costumi, ma parificate nel godimento di uguali diritti.

Due secoli dopo, Rutilio Namaziano, celebrava Caracalla e la Constitutio con queste parole: delle diverse genti unica patria hai fatto; un bene è stato, per i popoli senza legge, il tuo dominio. E, offrendo ai vinti d’unirsi nel tuo diritto, tu del mondo hai fatto l’Urbe (De reditu suo, 1, 63-66).

Quasi due millenni dopo, la discussione sui diritti è ancora aperta.

Nella foto: busto di Caracalla al Museo Archeologico di Napoli. Noto come il “Caracalla Farnese”, la fama dell’opera crebbe nel Seicento e nel Settecento per la cattiva reputazione dell’imperatore. Tanto che Winckelmann la descrisse sostenendo che Lisippo stesso non avrebbe potuto realizzare un ritratto migliore di questo.

Lenuccia, Partigiana.

Nel settembre del 1943 Maddalena Cerasuolo aveva 23 anni. La chiamavano tutti “Lenuccia”. Con la sua paga da operaia in un calzaturificio, anzi – come si diceva allora – da “apparecchiatrice di scarpe”, sosteneva la famiglia, popolare e numerosa. Con i genitori, cinque sorelle e due fratelli viveva in un basso di vico della Neve a Materdei, a due passi dal Rione Sanità. 

Ecco, il papà. Una figura importante. Carlo Cerasuolo, cuoco presso la mensa dell’Ansaldo, medaglia d’argento al valor militare nella guerra italo-turca, monarchico e, soprattutto, antifascista. Anche con l’avvento del regime non aveva mai nascosto i suoi ideali, tanto da venire incarcerato più volte e sempre in occasione della visita in città di qualche importante gerarca. Quando, spontaneamente, persone di ogni estrazione sociale e di ogni occupazione, iniziarono a impugnare le armi contro l’occupazione nazista, Carlo e Maddalena non ebbero dubbi. E il 29 settembre alla notizia che per ordine di Hitler i guastatori tedeschi avrebbero minato il ponte della Sanità (così da interrompere i collegamenti con il centro della città) padre e figlia combatterono eroicamente fianco a fianco, con i partigiani dei rioni Stella e Materdei. La difesa del “ponte della Sanità” è uno degli ultimi episodi delle cosiddette “quattro giornate di Napoli”. Il 1° ottobre, infatti, quando i primi carri armati Alleati entrarono in città il comando tedesco in Italia, per bocca del feldmaresciallo Albert Kesselring, considerò conclusa la ritirata. Non si conclude quel giorno, invece, la storia di Lenuccia. Contattata dal comando inglese di stanza a Napoli, insieme ad alcuni dei partigiani che si erano distinti durante le “Quattro Giornate” iniziò a collaborare con i servizi segreti. Il suo nome diventò Maria o Anna Esposito, la sua sigla C22. E questa ragazza di 23 anni, che fino ad allora non era mai uscita da Napoli, continuò a combattere fascisti e nazisti.

50 anni dopo, il 30 settembre del 1994, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro partecipò alla cerimonia commemorativa della “Quattro Giornate di Napoli” tenendo Maddalena sotto il braccio. 

Oggi come allora, le arcate del ponte sovrastano il rione, sfiorando l’imponente cupola della Basilica di Santa Maria alla Sanità. Chi si concede una breve passeggiata, prima che lo sguardo sia attratto dalla maestosa sagoma del Vesuvio o dai pittoreschi scorci del quartiere, può notare una targa che la ricorda. Dal 31 marzo 2011, infatti, il ponte è stato ribattezzato “Ponte Maddalena Cerasuolo, Partigiana”.

Napoli, Ponte Maddalena Cerasuolo già “della Sanità”.

La sfida dello storico.

Sabato 14 Aprile ho avuto la possibilità di presentare “Lo sguardo di Annibale” (Edizioni Efesto, 2016) ad Anzio, nella splendida cornice della seicentesca Villa Adele in cui convivono il Museo Civico Archeologico e il Museo dello Sbarco.
Anzio Museo Civico Archeologico
Villa Adele, Anzio, Museo Civico Archeologico.

All’ingresso, a pochi metri da uno splendido mosaico pavimentale figurato a tessere bianche e nere, in cui due tigri, un leone, una pantera e due aquile  celebrano i fasti del II-III secolo d.C., uniformi americane, inglesi, italiane e tedesche, resti di aerei, di navi da guerra, di mezzi da sbarco “raccontano” del 22 gennaio 1944.

Non poteva esserci luogo emotivamente più coinvolgente in cui cercare un dialogo tra passato e presente. Dove ricordare come la Storia non sia solo una ordinata cronologia di eventi, ma un insieme di uomini nel tempo. Personaggi di cui ci sono state tramandate le gesta, celebrati i trionfi o implacabilmente sottolineate le sconfitte. Eventi che sono stati studiati, discussi, dibattuti a lungo. Quasi sezionati, a volte. Ma ancora di più, come la Storia sia fatta di persone che per quelle gesta, per quegli eventi, non sono state altro che “carne umana”. Uomini e donne condannate all’oblio proprio dall’immortalità a cui sono stati destinati i loro giorni, a cui è stata sacrificata la loro quotidianità.

E’ questa la sfida dello storico, oggi.

Non solo rievocare le scelte e le gesta di chi ha “fatto” la Storia, ma inserirle in un contesto che possa dar voce, dignità, vita a quella “carne umana” che della Storia è stata materia, plasma, linfa, ma che dalla Storia stessa è stata travolta fino ad essere sepolta e dimenticata.

Sul Trasimeno, a Canne, a Zama.

Ad Anzio, a Cisterna, a Cassino.

Anzio Museo dello sbarco Villa Adele
Villa Adele, Anzio, Museo dello sbarco.

Musei Capitolini, Annibale in Italia.

Annibale in Italia, Jacopo Ripanda, Roma, Musei Capitolini.
Jacopo Ripanda (attr.), Annibale in Italia, Affresco, Inizio XVI secolo – Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, Sala di Annibale.

Non è sicuramente tra le rappresentazioni più attendibili della campagna di Annibale in Italia. Né, sicuramente, tra quelle del generale Cartaginese più somiglianti. Ma l’affresco “Annibale in Italia” (risalente al primo decennio del XVI secolo, attribuito tradizionalmente al pittore bolognese Jacopo Ripanda) mi ha sempre affascinato particolarmente.  Annibale, seduto sull’elefante come un sultano; l’esasperato ordine della cavalleria lanciata al galoppo; la tranquillità della marcia dei soldati in primo piano; le montagne sullo sfondo, ormai lontane, e le alte mura difensive di una città indefinita che sembra solo sfiorata dalla battaglia. E’ una rappresentazione semplice. Un po’ ingenua, forse. Ma è un esempio prezioso di come il mito di Annibale abbia attraversato i secoli e, fondendosi con la storia, ispirato gli artisti di ogni epoca.