
Con un editto del 212 a.C., la Constitutio Antoniniana, l’imperatore Marco Aurelio Severo Antonino Pio Augusto, noto con il soprannome di Caracalla, stabiliva la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, ad eccezione dei dediticii (i non romani formalmente privi di ogni altra appartenenza cittadina). Ancora oggi, la critica storica si divide nell’analisi. Fu un’azione civilizzatrice o un provvedimento demagogico? Un’affermazione di giustizia sociale o una sanzione formale del dispotismo? Caracalla fu solo l’uomo spietato e crudele descritto da Niccolò Machiavelli o un accorto uomo di stato?
Il testo, seppur lacunoso, riportato sul Papiro di Gissen sembra suggerire un’interpretazione di grande lungimiranza. A muovere l’imperatore furono la necessità politico-amministrativa di evitare i ricorsi al sovrano per questioni riguardanti il possesso del diritto di cittadinanza, e la volontà di assimilare nel culto le divinità tradizionali e quelle introdotte nel Pantheon romano da ogni provincia in nome del sincretismo religioso.
L’editto del 212 può quindi essere considerato il compimento di un processo politico, sociale e giuridico ormai maturo. Usando le parole dello storico inglese Howard Hayes Scullard: nel 212 le antiche distinzioni tra italici e provinciali, tra conquistatori e conquistati, tra popolo padrone e sudditi erano ormai cadute, e l’Impero diventato una grande comunità di popolazioni diverse per lingua e costumi, ma parificate nel godimento di uguali diritti.
Due secoli dopo, Rutilio Namaziano, celebrava Caracalla e la Constitutio con queste parole: delle diverse genti unica patria hai fatto; un bene è stato, per i popoli senza legge, il tuo dominio. E, offrendo ai vinti d’unirsi nel tuo diritto, tu del mondo hai fatto l’Urbe (De reditu suo, 1, 63-66).
Quasi due millenni dopo, la discussione sui diritti è ancora aperta.
Nella foto: busto di Caracalla al Museo Archeologico di Napoli. Noto come il “Caracalla Farnese”, la fama dell’opera crebbe nel Seicento e nel Settecento per la cattiva reputazione dell’imperatore. Tanto che Winckelmann la descrisse sostenendo che Lisippo stesso non avrebbe potuto realizzare un ritratto migliore di questo.