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Bacio feroce.

Roberto Saviano, Bacio feroce, Feltrinelli, 2017.
Roberto Saviano, Bacio feroce, Feltrinelli, 2017.

La paranza dei bambini (Feltrinelli, 2016) è uno splendido romanzo di denuncia. Un docu-thriller che trasuda sentimento, rabbia e passione creativa. Bacio feroce, ne è il sequel. La banda di “bros” con il mito di Call of Duty e Don Vito Corleone, con al vertice Nicolas Fiorillo “o’ Maraja”, combatte una guerra contro la vecchia guardia per prendere il comando delle piazze di spaccio più ambite. Ma nonostante la perfetta continuità narrativa e stilistica il risultato, stavolta, è una Serie Tv. Fatti, dettagli, colpi di scena, si susseguono con un ritmo esageratamente martellante. Immagini forti, come la tenaglia che strappa – uno ad uno – i denti di “Carlitos Way”, costringono a chiudere il libro con la stessa foga con cui si cambia canale di fronte ad una scena horror inaspettata. Ma allo stesso tempo spingono ad andare avanti, a volerne di più. I richiami all’attualità criminale e alle sue geografie (la descrizione del “Delivery”, lo spaccio di droga modello supermarket, e delle rotte dei traffici), le vittime innocenti degli agguati, i rapporti tra criminalità e tifo organizzato, catapultano il lettore in un reportage d’inchiesta puntuale e diretto. Lo slang quotidiano, per cui il traditore è un “Higuain”, certifica in modo inequivocabile che i fatti si svolgono in un oggi vero, reale. E’ tutto perfetto, quindi. Ma è tutto troppo. In Bacio Feroce manca la calma. tanti che si finisce per inseguirla, quasi per implorarla. Perché è nei vuoti, negli insoliti silenzi di alcuni vicoli di Forcella, nella solitudine delle notti di latitanza a Ponticelli, che si percepisce il senso del libro. La guerra tra bande, il conflitto tra “giovani” e “vecchi” in versione malavitosa, certo. Ma soprattutto lo scontro disperato tra le diverse anime che assistono a questa guerra. Quelle disperate, come Greta e Emma, mamme certe dell’ineluttabile autodistruzione dei propri figli, ma disposte a tutte pur di provare a salvarli. Quelle spregiudicata, come Mena, la madre di Marajà, per cui l’ascesa criminale di Nicolas non è altro che l’unica possibile, anche se effimera, giustizia.

Insomma, quando Roberto Saviano scrive della sua terra e, inevitabilmente, delle dinamiche mafiose che spesso la governano (e che dal 2006 lo costringono a vivere sotto scorta), è una penna attenta e raffinata, sempre in perfetto equilibrio tra l’approfondimento e la colloquialità. Incalzante, forte. Quando si lascia andare a fuochi d’artificio cinematografici si indebolisce e sbanda. Finendo per fare un po’ di confusione.

Quella notte sono io. Un romanzo sulla responsabilità.

Giovanni Floris, Quella notte sono io, Rizzoli.
Giovanni Floris, Quella notte sono io, Rizzoli.

Germano, Lucio, Margherita, Silvia e Stefano sono inseparabili. Germano, il Kapo, fascista, prepotente e manesco. Lucio, arrogante e saccente. Margherita, semplice e affascinante, Silvia, ricca e bellissima. E Stefano, “bello e sano”. Più adatto ad un college americano che a un liceo romano, ingenuo. Affiatati e uniti (apparentemente), sono un gruppo. Ma sono anche un branco. Aguzzini, persecutori spietati di Mirko, il diverso. Lo stupido. L’handicappato. Il debole da deridere e umiliare. Persino da “sacrificare”, facendolo precipitare dal balcone di un albergo durante una gita.

Sarà, anni dopo, una lettera dello stesso Mirko (il vero e proprio protagonista assente) a farli incontrare di nuovo e, in una casa trasformatasi improvvisamente in una Alcatraz inespugnabile, a catapultarli dentro un implacabile processo alle loro azioni, alle loro superficialità, alle loro meschinità. Con uno stile asciutto e diretto e un ritmo incalzante Giovanni Floris evita la melensa retorica anti bullismo rifiutando la dicotomia buono-cattivo. A far definitivamente deflagrare il “gruppo” infatti non è il rimorso verso la vittima, ma l’improvviso e (a loro giudizio) inspiegabile rovesciamento dei ruoli. Germano, Lucio, Margherita, Silvia e Stefano diventano, di colpo, un gruppo di “diversi”. Lontani anni luce da quella mimetica “normalità” nella quale, dopo averla disprezzata, vorrebbero nascondersi e confondersi.

Obbligati a fare i conti, per la prima volta, con il senso di responsabilità. A sentirne il peso. A percepirne, sulla pelle, le sfumature drammatiche. E a decidere se continuare a scapparne o affrontarlo.

La prima regola degli Shardana.

Giovanni Floris, La prima regola degli Shardana, Feltrinelli.
Giovanni Floris, La prima regola degli Shardana, Feltrinelli.

“La prima regola degli Shardana” è una storia d’amicizia, avventurosa e malinconica, alla “Stand by me”. Con la Sardegna, però, al posto dell’Oregon. Con la Barbagia dai monti azzurri e chiari come fatti di marmo e d’aria a fare da locus amoenus, da scenografia imponente al rapporto indissolubile, anche se apparentemente sfilacciato, che lega i tre protagonisti Raffaele, Giuseppe e Sandro. A trasformarla in una commedia esilarante è la capacità di Giovanni Floris di utilizzare linguaggi e tempi comici sempre diversi, destreggiandosi tra citazioni sfacciate e rielaborazioni dotte dei tòpoi di quella letteratura e di quella cinematografica che, negli anni Ottanta e Novanta, ha plasmato generazioni di adolescenti nei “cazzeggioni” odierni.

Ci sono le donne: Rosy, ricca-rifatta-arrogante-stronza, e Michela, semplice, giovane, bella, simpatica, intelligente. Ci sono i nemici: il Cavalier Mariano Quattrociocchi, costruttore/corruttore eternamente sprofondato sul divano di pelle  e i temibili fratelli Omar, Valentino e Heller di Rocco. Che con le facce scure, le pance prominenti e gli sguardi poco intelligenti, più che i Casamonica ricordano la “banda Fratelli” dei Goonies. C’è il calcio: quello verace del Prantixedda Inferru impegnato nella Coppa Sarda, roba da campo di terra e righe fatte con la calce, ritmi bassi e legnate dure. Più Pallastrada che Champions League, più Stefano Benni che Fabio Caressa. Ci sono le botte: Don Virgilio che mena fendenti con un seggiolino divelto non è né Don Matteo né Don Camillo. E’ Bud Spencer. E poi ci sono le parolacce e le battute sboccate che assumono, però, il valore di ossequiosi omaggi alle commedie degli anni Settanta e ai cinepanettoni. Il celebre “c’ho certi cazzi che manco tu che sei pratica” di Mandrakiana memoria, come la lettera a Savonarola di Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”.

La prima regola degli Shardana, quindi, pagina dopo pagina prende la forma di un magistrale compendio di ricordi, con cui stemperare le sfumature più malinconiche della storia e grazie ai quali – per fortuna – riscoprire il fragore di qualche grassa risata di gusto.

P.S. Ah, ‘sta benedetta prima regola degli Shardana, è meglio seguirla.