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Sospendete la partita.

Non ho scritto nulla sul Covid-19, e non lo farò nemmeno ora. Per dirla alla Klopp, le persone che non sanno nulla, come me, non possono parlare di questi argomenti. Bisogna ascoltare chi ha le competenze e può dire alla gente cosa fare. 

Spero passi, possibilmente presto. Spero che tutti si attengano alle indicazioni ricevute, possibilmente in modo scrupoloso. Spero che le decisioni prese dal Governo siano corrette, possibilmente le migliori. Anche se in alcuni casi sono molto difficili da digerire per i diretti interessati, c’è di mezzo la salute quindi si faccia ciò che è necessario fare. Affidandosi a chi ha le competenze per dirci cosa è più giusto in questo momento. 

Però c’è un però. Le uniche notizie in grado di competere in questi giorni con i bollettini della Protezione Civile sono state quelle riguardanti il campionato di calcio. Un surreale teatrino sulle porte aperte, chiuse o accostate. Sulla perdita degli incassi. Sull’ordine dei recuperi, e dei recuperi dei recuperi.

Delle due l’una. Se l’emergenza è tale da chiudere le scuole per settimane, rinviare il referendum sul taglio dei parlamentari, isolare interi territori, invitare (in modo piuttosto perentorio) gli anziani a starsene ben tappati in casa, temere per la tenuta del sistema sanitario nazionale, e se per fronteggiarla è necessario sacrificare interi comparti economici allora è meglio che Ministero dell’Interno, Comuni e Prefetture varie non sprechino energie (e risorse) per il campionato di calcio.

Che vengano spartiti, ora come fosse l’ultima giornata, titoli, successi, fallimenti, ricchi premi e cotillon. Quando saremo tutti un po’ più sereni, rimetteremo la palla al centro e ce la giocheremo di nuovo. Intanto, adesso, sospendete la partita.

Testardi senza gloria.

M. Muscarà, D. Carboni, G. Romano, Testardi senza Gloria, Edizioni Efesto, 2019.

L’Ajax di Cruyff. Il Milan di Sacchi. Il tiki-taka di Guardiola.

Il Verona di Bagnoli, il Leicester di Sir Claudio Ranieri o la Nazionale del 2006. La classe di Maradona, Cristiano Ronaldo, Messi, Zidane. Francesco Totti. La grinta di Roy Keane. La “vena” di De Rossi. Il triplete dell’Inter. Il goal di Turone o il fallo di Iuliano su Ronaldo.

La maglia a righe orizzontali bianche e verdi del Celtic, l’arancione dell’Olanda, CCCP sul petto dei calciatori dell’Unione Sovietica di Lobanowski. La Jugoslavia che non abbiamo mai potuto vedere. Wembley, San Mamés, la Bombonera.

Pensiamo al calcio, non al tifo. Alla squadra che più ci ha emozionato, all’episodio che ci ha fatto infuriare, al personaggio che ci ha affascinato, ai colori delle maglie che abbiamo sognato. Ecco, in questo libro non ne troveremo traccia.

Ma se per il tempo necessario a leggere le storie raccontate da Marco Muscarà, Daniele Carboni e Giovanni Romano pensiamo al calcio in modo assoluto, puro, allora in “Testardi senza gloria” (ed. Efesto, 2019) troveremo tutto ciò che questo sport sarebbe in grado di suscitare se il tifo, molto spesso – troppo spesso – non finisse per soffocarlo, nasconderlo. Fino a farcene dimenticare.

Lo stile degli autori, che non rinunciano al rigore della cronaca, è caldo e coinvolgente. Più vicino all’ammaliante affabulare delle radiocronache, alle voci di Carosio, Martellini e Ciotti (non è un caso, tutti e tre sono speaker a Radio Sonica, Radio Centro Suono Sport e Radio Rock) che ai concitati ritmi delle televisioni, alle chiacchiere superficiali dei post partita, all’ossessiva riproposizione degli highlights. Il risultato è un libro di racconti di coraggio, passione, appartenenza e condivisione. Di vittorie e di sconfitte. Di libertà e di giustizia, sempre con un pallone tra i piedi.

Milano, la Colonna Infame.

Nel cuore della movida milanese, a pochi passi dalle “colonne di San Lorenzo”,  una scultura in bronzo (realizzata nel 2005 dall’artista Ruggero Menegon) ricorda un episodio risalente all’epidemia di peste del 1630. Sì, proprio quella raccontata da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”.

La Colonna Infame, Ruggero Menegon, bronzo, 2005.

Siamo all’angolo tra via Gian Giacomo Mora e Corso di Porta Ticinese. Oggi, tra negozi di abbigliamento, piccoli locali e qualche canapa-shop, il continuo via vai di giovani e turisti anima l’ampio e suggestivo piazzale antistante la Basilica di San Lorenzo Maggiore. All’epoca dei fatti in una delle umili abitazioni, quelle che le cronache definivano “nient’altro che catapecchie”, edificate nel corso del tempo proprio lì, intorno al quadriportico ed al colonnato della Basilica, vivevano le prime protagoniste della storia, Caterina Rosa e Ottavia Boni. Le due popolane, già di primo mattino affacciate alla finestra, dichiararono alle autorità di aver visto un uomo, con il viso nascosto da un cappello e un mantello nero, sfiorare i muri delle case lasciando delle macchie oleose e giallastre. 

In pochissimo tempo la paura della terribile epidemia e le superstizioni (esasperate dalla diffusione della malattia, a Milano i morti arrivarono a 64.000) trasformano una semplice “voce” in una certezza, e un uomo dall’andatura barcollante nel colpevole dei contagi: quello che le due donne avevano visto all’opera era senza dubbio un untore.

Le indagini condotte dal Capitano di Giustizia, tanto rapide quanto superficiali, portarono all’arresto del Commissario di Sanità Guglielmo Piazza. Semplici macchie d’inchiostro nero sulle sue mani, scambiate per i resti del misterioso unguento pestilenziale, bastarono a provare l’accusa e giustificare il ricorso alla tortura. 

Ai giudici non interessavano i fatti, né le spiegazioni razionali. A loro serviva un capro espiatorio su cui far sfogare la rabbia del popolo, sempre più impotente di fronte al propagarsi incontrollato della peste. Così, nella speranza di aver salva la vita, Piazza provò a fornirglielo, accusando a sua volta Gian Giacomo Mora. Barbiere di professione, anche lui abitava e lavorava nella zona di San Lorenzo. E tra i balsami, i saponi e i medicamenti tipici del mestiere (come tutti i barbieri del suo tempo svolgeva infatti anche funzioni di primo soccorso), conservava un preparato di sua creazione per lenire, o che quantomeno avrebbe dovuto lenire, le ferite degli ammalati. Quando le guardie nel corso della perquisizione della sua bottega ne trovarono i resti in una bacinella, si rese conto di non avere più scampo. Torturato per ore, pur di porre fine alle sofferenze pronunciò le parole che i giudici volevano sentire: a ungere i muri e diffondere la peste erano stati lui e Piazza.

Condannati a morte, una macabra processione li scortò dal Palazzo del Capitano di Giustizia sino al luogo delle esecuzioni, l’attuale piazza Vetra. Durante il tragitto furono tormentati con ferri roventi, e davanti alla bottega del Mora ai due fu amputata la mano destra. Quindi furono legati alla “ruota” e colpiti senza pietà. Agonizzarono, davanti alla folla che si era radunata nella piazza, per sei ore. Poi, i corpi vennero bruciati e le ceneri gettate nel canale della Vetra.

La casa del Mora si spiani, et in quel largo si drizzi una Colonna, la quale si chiami Infame et in essa si scrivi il successo, né ad alcuno sia permesso mai più riedificare detta casa (da “La sentenza data a Guglielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora”, 1631).  L’abitazione-bottega del Mora fu distrutta e sul posto, oltre alla Colonna, come monito ai cittadini fu apposta una lapide (oggi conservata al Castello Sforzesco) con la descrizione degli avvenimenti e le atroci pene inflitte ai colpevoli.

Lapide della Colonna Infame, Milano, Castello Sforzesco (Corte Ducale)

Qui dov’è questa piazza sorgeva un tempo la barbieria di Gian Giacomo Mora il quale congiurato con Guglielmo Piazza pubblico commissario di sanità e con altri, mentre la peste infieriva più atroce sparse qua e là mortiferi unguenti, e molti trasse a cruda morte. 

Questi due adunque giudicati nemici della patria, il senato comandò che sovra alto carro martoriati prima con rovente tanaglia e tronca la mano destra si frangessero colla ruota, e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati, poscia abbruciati e perché nulla resti d’uomini così scellerati, confiscati gli averi si gettassero le ceneri nel fiume.
A memoria perpetua di tale reato questa casa officina del delitto il Senato medesimo ordinò spianare e giammai rialzarsi in futuro, ed erigere una colonna che si appelli infame. 

Lungi adunque, lungi da qui buoni cittadini, che voi l’infelice infame suolo non contamini.

Dell’originale “colonna infame” non abbiamo nessuna traccia. Nel 1778, infatti, divenuta simbolo delle atrocità commesse all’epoca dalla “giustizia”, fu rimossa.

Dell’episodio, e del processo a Mora e Piazza, abbiamo invece un’ampia documentazione. Su tutte, il saggio “Storia della Colonna Infame” di Alessandro Manzoni (pubblicato in prima edizione nel 1840 come appendice a “I promessi sposi”). Molto più della cronaca di un episodio storico. Un’accusa, diretta e attualissima, all’ipocrisia, alla codardia, all’ignoranza, al pregiudizio e alla superficialità umana.

Sarebbe bello se, oggi, al monumento di Menegon, venisse dato maggior risalto. Se il punto in cui sorgeva la casa del Mora non fosse lasciato a confondersi tra banche, negozi e locali. E se al suo fianco fosse riportato questo breve passo, tratto dall’introduzione dell’opera:

L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli…

La montagna scintillante.

Una appassionante storia d’alpinismo e d’avventura.

Walter Bonatti La Montagna Scintillante - CAI - Solferino
Walter Bonatti, La montagna scintillante, CAI – Solferino

Le pagine del diario, scritte da Walter Bonatti, nel 1958, durante la spedizione del Club Alpino Italiano per la conquista del Gasherbrum IV (al centro della catena del Karakorum, al confine tra il Kashmir e la Cina), rimaste nascoste per decenni e pubblicate oggi da Solferino e CAI, si leggono con l’agilità di un romanzo. Ed è proprio grazie all’intimità delle riflessioni, all’istintività di alcune considerazioni, al realismo delle descrizioni che è possibile, a sessanta anni di distanza, comprendere le reali dimensioni di quella che si può definire, senza timore di smentita, una vera e propria impresa epica.

Anche se – per pochi metri, solo venti – non appartiene all’esclusivo “club” degli 8000, il GIV è una montagna bellissima – le foto d’epoca che accompagnano il diario  ne trasmettono il fascino – e difficile. Lo stesso Bonatti la descrive come una montagna magnifica e insieme diabolica da qualunque parte la si guardi, la sua vetta è una cresta lucente come il cristallo, incredibilmente affilata. Cresta che, tecnicamente, non presenta nessun “punto debole” attraverso cui progettare una via di salita. Per questo è un vero peccato (come giustamente afferma nell’introduzione Roberto Mantovani, amico stretto di Bonatti e studioso) che, nell’Italia del boom economico, l’ascensione non abbia avuto l’eco mediatica che le sarebbe spettata. Troppo vicina, probabilmente, sia cronologicamente che geograficamente, alla conquista italiana del K2 (del 1954) per non esserne in qualche modo schiacciata. Ma quella portata a termine alle 12.30 del 12 agosto da Walter Bonatti e Carlo Mauri (i due alpinisti che materialmente salirono sulla vetta del GIV e piantarono le bandierine dell’Italia, del Pakistan e del Club Alpino Italiano) con Donato Zeni, Riccardo Cassin, Bepi De Francesch, Toni Gobbi, Giuseppe Oberto e Fosco Maraini, fu senza dubbio un’impresa di livello pari, per difficoltà tecniche (addirittura di V grado), imprevisti meteorologici e problemi organizzativi, a quella di 4 anni prima. Similitudini su cui Bonatti non si dilunga, lasciandoci invece una testimonianza notevolmente più intima indugiando sulle emozioni suscitate dalla vista delle creste e delle pareti che lo avevano visto protagonista in precedenza.

La vetta appena vinta è costituita da una ripida e breve cresta di roccia completamente spoglia di neve sul versante occidentale a causa dei venti fortissimi cui continuamente è sottoposta; inoltre offre lo spazio appena sufficiente per reggere in piedi un uomo. Sul versante orientale invece, oltre il profilo della cresta rocciosa, appare incollata orizzontalmente una grande calotta nevosa invitante a vedersi ma completamente sospesa nel vuoto. Per raggiungere l’obiettivo la spedizione italiana fu obbligata a tracciare una via pericolosissima, che per i successivi sessant’anni nessuna spedizione avrebbe più ripetuto.

Potevano riuscirci solo degli eroi.

C’è poco da dire: Bonatti è un dio. Quando tocca lui vedo il puntino rosso della sua maglia che avanza, vorrei dire senza sforzo, certo con decisione e leggerezza uniche, fino al punto di sosta; gli altri a paragone sono creta e terra, umile carne umana.” – Fosco Maraini

Walter Bonatti La Montagna Scintillante - CAI - Solferino
Bonatti in un tratto impegnativo su terreno misto nella parte alta della cresta nord-est

Un San Gennaro al contrario.

Il Vesuvio è il ricordo millenario della tragica distruzione di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis. Ed è l’immagine, ineludibile, del rischio futuro. Imprevedibile e incontrollabile. Sotto la cui ombra, nonostante tutto, scorrono le vite di quartieri, paesi, comunità. Si affannano le mamme, affaccendate con i bambini intorno. Sciamano gli studenti, con le cuffiette nelle orecchie e lo smartphone fisso davanti agli occhi. I pendolari  ripetono inesorabilmente il tragitto casa-lavoro-casa, accalcati nei vagoni precari della Circumvesuviana o chiusi in macchina, nel traffico della Statale 18. I nonni si muovono sicuri tra i banchi del mercato. Qualcuno non fa niente. Qualcuno fa, e non dovrebbe fare.

A quella sagoma minacciosa sopra la testa forse non pensa nessuno. Perché nessuno può chiedergli nulla. E’ un San Gennaro al contrario, il Vesuvio. Da cui nessuno può pretendere comprensione. A cui nessuno può implorare perdono. Ma davanti al quale chiunque non può che sentirsi piccolo, impotente. Uno qualunque. Uno dei tanti. E deve abbassare lo sguardo.

Anche se il fumo lo nasconde. Anche se è un boss.vesuvio incendio 2017