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La “pacchia” a Magliana.

La scorsa settimana a Roma, alla Magliana, un pregiudicato è stato ucciso davanti all’asilo nido dove aveva appena lasciato le due figlie [QUI]. Un killer in scooter con il volto coperto dal casco integrale, quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo: un’esecuzione. Pochi giorni dopo, alcune testimonianze hanno portato le indagini a concentrarsi su un nome legato alla Banda della Magliana. 

Anche se l’indagato nega qualsiasi coinvolgimento con l’omicidio, solo il rimando al Negro, a Renatino e a Crispino, mette i brividi. Riporta a un ventennio di storie criminali che probabilmente con troppa facilità sono state consegnate alla storia” e alla “letteratura”. Nonostante Antonio Mancini, Nino l’accattone, componente del primo nucleo della banda e adesso collaboratore di giustizia (e quindi – nel “settore” – infame), sostenga da tempo che l’associazione criminale sia ancora in attività [QUI].

Banda della Magliana

Quindi, non un episodio di violenza – seppur efferato – derubricabile in qualche modo a triste (tristissima) statistica,  ma un atto criminale allarmante, a cui rispondere col “pugno di ferro”. Eppure ieri, in strada, nel cuore della Magliana, non c’era il Ministro degli Interni, né il Guardasigilli. Il primo probabilmente troppo impegnato a cercare un travestimento da artificiere da sfoggiare, “entro 48 ore”, davanti alla pizzeria Sorbillo di Napoli. Il secondo a pubblicare video acchiappa-like di un terrorista in manette, senza curarsi di mettere a repentaglio l’identità di un agente sotto copertura.

manifestazione Magliana No alla violenza no al degrado

Ieri, quando alle 18.30 persone comuni, associazioni e comitati di quartiere si sono riuniti in Piazza De André (che poi, stando ai tweet, almeno la location avrebbe dovuto incontrare i gusti di Salvini), al loro fianco non c’era nessun teorico dell’è finita la pacchia. Nessun “capitano”. Nessuna ruspa in azione. Il nemico, evidentemente, in questo caso non garantiva audience, like e follower. O forse, semplicemente, stavolta era vero.

E lo pianse con accenti femminili.

Passeggiavo, oggi, tra le monumentali rovine di Villa Adriana, a Tivoli. Raccontando ad un gruppo di appassionati turisti dell’imperatore Adriano, della sua politica, della sua passione per le arti, per l’architettura e la filosofia. Della sua “animula vagula blandula”. Del suo amore. E mi sono tornate in mente poche righe attribuite a Elio Sparziano: “Durante una navigazione sul Nilo perse Antinoo, e lo pianse con accenti femminili. Alcuni insinuarono ciò che la bellezza del giovane e la sensualità di Adriano lasciano immaginare”.

Ma cosa vuol dire piangere con accenti femminili?

C’è poco da “insinuare”. Vuol dire – semplicemente – amore. Busto dionisiaco di Antinoo, Museo Archeologico di Venezia

La verità è rivoluzionaria.

Sarò impopolare, ma a me della querelle sullo stipendio del capo di gabinetto del Sindaco di Roma non frega proprio niente. Quantomeno non in questo momento. Mi interessa che faccia bene il suo lavoro, e che lo faccia nell’interesse di tutti i romani. Ma soprattutto mi interessa che i cittadini da questa vicenda traggano spunto per iniziare a valutare ed eventualmente a mettere in discussione l’operato dell’Amministrazione che hanno chiamato a governare la città sulla base delle scelte che compie. E, magari, sulla base di quanto esse si discostino da quel “sentimento rivoluzionario” che ha generato il plebiscito di Giugno. Non può esistere, infatti, una rivoluzione che non sia generata da un desiderio diffuso di “vero”. E non può esserci “verità” raggiungibile senza critica, senza la capacità, e il coraggio, di andare al di là della propria (umana e ragionevole) parzialità. La critica è garanzia per la rivoluzione. La scuote, la frusta, la strazia a volte, ma la protegge. Ne custodisce l’integrità. E’ questo il corto circuito in corso. Quella evocata dalle grida “Onestà-Onestà” e celebrata dai link “Vergogna”-“In Galera”-“L’ha fatto davvero” è una rivoluzione che rifiuta il dubbio, che considera eretico l’approfondimento, che rigetta la critica: è una rivoluzione nata già regime. In cui tutto è slogan, insulto, spot. O anche sport, visto che siamo in periodo di Olimpiadi. Che magari a Tokio 2020 le medaglie potrebbero anche aumentare, basterebbe il campionato di condivisione seriale, specialità Tze-Tze, ItaliaRialzati e Orgoglioa5stelle.

verita

ISIS. Stato del terrore o utopia politica?

Come è arrivata un’organizzazione armata, che appena 3 anni era praticamente sconosciuta, a minacciare il mondo? E – bisogna aggiungere – non solo militarmente. Anche ideologicamente, usando tutti i moderni mezzi di comunicazione (il video della decapitazione del giornalista americano James Foley ha fatto il giro del mondo sulle ali dei social media). Questa domanda è alla base della ricerca di Loretta Napoleoni (saggista e giornalista, considerata tra i massimi esperti di terrorismo internazionale) sull’Isis. Argomento estremamente attuale, purtroppo.

ISIS, lo stato del terrore - Loretta napoleoni - Feltrinelli.
ISIS, lo stato del terrore – Loretta napoleoni – Feltrinelli.

Per l’innegabile complessità e delicatezza, il tema è trattato con estrema cura e, allo stesso tempo, semplicità. Approfondito come un saggio, chiaro come un articolo e scorrevole come un romanzo, le fonti sono riportate in modo chiaro e le loro interpretazioni (così come le opinioni personali) sono sempre ben distinte dalle notizie, dai fatti. Non ha la pretesa di proporre una soluzione,ovviamente. Ma aiuta a capire quanto la questione vada ben oltre la semplice brutalità “militare”.

Mentre i media ci hanno raccontato della proclamazione di un califfato e ci raccontano le decapitazioni dei prigionieri, l’Isis ha conquistato un territorio più vasto del Texas nel cuore del Medio Oriente, dissolvendo i confini creati artatamente dal colonialismo occidentale (impiantando i propri capisaldi territoriali in regioni economicamente strategiche, come le ricche aree petrolifere della Siria orientale) e promuovendosi come vero e proprio potere politico. Legge, ordine e “sicurezza nazionale”, infatti, sono compiti dell’apparato amministrativo del “Califfato”. Come un vero e proprio Stato moderno rispetto alle enclave “premoderne”, retaggio dei ripetuti interventi militari stranieri. E’ anche questa, probabilmente, una delle seduzioni dello Stato Islamico. Una sorta di “contratto sociale”, per dirla alla Rosseau. Un modo, quello di ripristinare attorno a un moderno salafismo antioccidentale la maschera teatrale di uno stato vero e proprio, per ottenere il consenso della popolazione. Convincendola, così, di partecipare alla costruzione di un nuovo ordine politico in Medio Oriente, di una nazione governata dall’onore, di una società contemporanea ma al tempo stesso perfettamente in armonia con al Tawhid, l’unità dei fedeli ordinata da Dio. [Balza agli occhi – peraltro –  come, presentandosi in questo modo, la propaganda dello Stato Islamico offra un’immagine politica di sé analoga a quella proposta dai primi sionisti che, negli anni quaranta, si unirono per riconquistare una “patria ancestrale donata da Dio”. NDR] Nel caso del Califfato la religione – e in particolare il concetto di Takfir, apostasia – è l’alibi perfetto per operazioni di vera e propria pulizia etnica. L’eliminazione degli Sciiti garantisce l’appoggio della popolazione sunnita, certo. Ma soprattutto una società etnicamente più omogenea (evitando quindi la possibilità di formazione di fronti di opposizioni “laici” o “moderati”) e la liberazione di risorse economiche da redistribuire ai soldati ed alle loro famiglie. La guerra di genocidio, quindi, è parte di una tattica politica dal respiro ben più ampio di quello brutale e primitivo di decapitazioni e crocifissioni a cui, spesso, si fermano i media.

Quella con l’Isis, quindi, non è e non potrà mai essere un’altra delle tante (e ripetute, e ripetitive) guerre – dirette o per procura – che l’Occidente (in scala più o meno vasta) ha ingaggiato nella zona. E’ invece lo scontro con un’utopia politica: Con un’intuizione potente e per questo seducente anche (o forse soprattutto) per quegli emigrati musulmani che da un condizione di emarginazione dovrebbero integrarsi nella società occidentale.

La pentola a pressione della Capitale.

L’inchiesta “Mondo di mezzo” mi ha fatto venire in mente questa immagine, una pentola a pressione lasciata sul fuoco a cuocere il mix dei migliori ingredienti che l’attualità italiana è in grado di proporre: piccola, media e grande criminalità miscelata sapientemente con i gangli più ributtanti della politica. E, di conseguenza, ha aperto tre scenari.

Se il sindaco Marino ha lasciato sul fuoco fino ad ora questa pentola prestandosi ad aprire, periodicamente, la valvola per consentire che la cottura di affari ed interessi procedesse a puntino, si dovrebbe dimettere. Subito.

Se il sindaco Marino è stato un cuoco così distratto da aprire la valvola della pentola senza sapere cosa i precedenti “colleghi” avessero lasciato sul fuoco, si dovrebbe dimettere ancora prima.

Se invece, come credo, questa pentola a pressione di crimine è esplosa proprio perché Marino, con tutta la sua grossolana supponenza e la sua antipatica prosopopea, si è rifiutato di aprire la “valvola” (ne scrivevo qui, a proposito della manovra d’aula), allora il commissario giusto per il Comune di Roma è proprio lui. Perchè adesso ha davvero l’occasione di azzerare la giunta e ricostruirla assessore su assessore, ruolo su ruolo, uomo su uomo, tecnico su tecnico. Senza guardare l’appartenenza politica, senza dover rispondere a squallide logiche compromissorie di partito (ne parlavo sempre qui, concludendo a proposito del Partito Democratico romano ). E cominciando, finalmente, a trasformare Roma.

Perché nel momento in cui sembra davvero che fanno tutti schifo e so’ tutti uguali non può passare la tesi per cui di questo “schifo” fanno parte – o, come urlano molti, sono complici – anche gli elettori, gli iscritti, i militanti e i simpatizzanti del Pd.

Auspico quindi che Orfini azzeri – subito! – i tesseramenti. Che Marino azzeri la Giunta e la ricomponga con tecnici ed esponenti della società civile.

E che il Partito Democratico di Roma diventi, finalmente, attore protagonista di un cambiamento, non di uno sfacelo.