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La piazza.

Ieri ho seguito la chiusura della campagna elettorale della candidata del M5s a sindaco di Roma.

A scanso di equivoci (non dovrebbe esserci bisogno, ma meglio chiarire visti i tempi) non la sostengo, non ne condivido i contenuti (sparuti e confusi, peraltro), non ne stimo i modi, non ne apprezzo la sottomissione a contratti e penali.

Mi interessava osservare la “piazza” (diecimila, ventimila, o millemilionidimila che fossero). Non mi riferisco ai Meetup, alle reti cittadine, ai volontari del Movimento. Avversari politici di cui non condivido i contenuti, spesso non capisco i modi, non apprezzo la sottomissione ad un proprietario per metà entità web e per metà icona soprannaturale, ma a cui riconosco dedizione ed impegno. Mi riferisco a quella mescolanza di anti-tutto a cui il sistema costruito da Grillo e Casaleggio si rivolge e che, quotidianamente, accudisce e pasce. Anti-casta, anti-politica, anti-pd, anti-renzi. Adesso anche anti-benigni e anti-riforme. E quindi (anzi, di conseguenza) anti-migranti, anti-negri, anti-froci, anti-zingari. A cui non viene fatto mancare un link quotidiano su Renzi asfaltato e sulla Boschi distrutta da condividere tutti!!!, da alternare alla disinformazione xenofoba dei siti di bufale. Affinché il rancoroso malessere di chi non è in grado, o non vuole distinguere ReBubblica da “la Repubblica”, il CoRiere dal “Corriere della Sera”, il Massaggio da “Il Messaggero” e il Fattone dal “Fatto quotidiano” diventi, in un click, moneta sonante per i paladini della loro (presunta) libertà.

Era a loro che si rivolgevano ieri le sentenze del “Dibba”, le roche grida della Taverna, l’incomprensibile soliloquio di Fo, gli occhi sgranati della Raggi. Interessati ad ingrassare le fila di quel coro di “contro” più che a far luce sull’impegno di altri. Perché facendo la voce più grossa, urlando più forte, anche una dittatura può essere spacciata per libertà.