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Supernotes: “same same but different”.

Supernotes, Agente Kasper e Luigi Carletti, Mondadori.
Supernotes, Agente Kasper e Luigi Carletti, Mondadori.

La storia vera di uno “007” italiano. Un agente “irregolare” però, prima del Sismi e poi del Ros, protagonista di pericolose operazioni contro il narcotraffico. Un agente sotto copertura dal passato discusso (e discutibile), da giovane legato agli ambienti di destra ma “protetto” da una pericolosa deriva estremista dall’allora procuratore di Firenze Pierluigi Vigna. Quella dell’Agente Kasper è la storia vera dei tredici mesi di prigionia in Cambogia, tra caserme, ospedali-lager e il durissimo “centro rieducativo” di Prey Sar. Una prigionia che però, ufficialmente, per il Governo Italiano non è mai esistita e che l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini ha bollato, in una lettera ai familiari, come “l’arresto di un cittadino italiano residente all’estero in forza di un provvedimento di altro Paese straniero (gli Usa) per riciclaggio e reati fiscali”.

L’unica strada per quel “cittadino”, quindi, era quella di cavarsela da solo.

Ed è la strada che “Kasper” e il giornalista Luigi Carletti ripercorrono, ricostruendo i durissimi giorni della prigionia, i faticosi tentativi dell’avvocatessa Barbara Belli di sensibilizzare la diplomazia sul caso, il drammatico silenzio delle istituzioni, ma soprattutto l’oggetto dell’indagine che fu la causa di tutto: le Supernotes. Banconote da 100 dollari vere ma allo stesso tempo false (same same but different è il modo di dire dei protagonisti), stampate con macchine e clichet “autorizzati” in Corea del Nord con cui l’intelligence americana pagherebbe clandestinamente tutto ciò che ritiene necessario per la sicurezza nazionale (regimi canaglia, rivoluzioni, narcotrafficanti, spregiudicate operazioni sul campo) ma che all’opinione pubblica deve rimanere nascosto.

Scorrevole ma sempre ben circostanziato. In equilibrio tra la biografia e la spy story, ma soprattutto in equilibrio tra la cronaca e la teoria del complotto. Interessante.

La pistola e gli occhi chiusi.

Ci vuole del tempo per metabolizzare la morte di un quattordicenne. E forse non basta (anzi no, non deve bastare) neanche tutto il tempo del mondo per metabolizzare che un quattordicenne possa essere ucciso da un carabiniere.

Però allo sgomento che ho provato di fronte a un fatto così enorme, alla sensazione del fiato che manca come dopo aver ricevuto un pugno nello stomaco, si è aggiunto un senso di rabbia verso una comunità che ai comportamenti “fuorilegge” sembra essersi arresa.

Una comunità che piange un ragazzo ucciso ma continua a chiudere gli occhi sui coetanei che non smettono di muoversi in tre sul motorino, senza casco. Perchè “a Napoli così è normale“.

Una comunità che chiude gli occhi sul fatto che un quattordicenne (non un uomo!) possa fare un giro in motorino di sera con due amici che sono, rispettivamente, un latitante e un pregiudicato. Perchè “ce ne sono tanti”.

Sia chiaro: non c’è dubbio che un quattordicenne ammazzato, per di più dallo Stato, annichilisca qualsiasi tentativo di “giustificazione” o “motivazione”. E non c’è dubbio che la giustizia debba essere rapida, e la condanna esemplare. Nonostante la divisa. Anzi, ancor di più per la divisa.

Ma non si può far finta di non vedere che Davide Bifolco è stato ammazzato anche da quel contesto, e da tutti quegli occhi chiusi.