Ci vuole del tempo per metabolizzare la morte di un quattordicenne. E forse non basta (anzi no, non deve bastare) neanche tutto il tempo del mondo per metabolizzare che un quattordicenne possa essere ucciso da un carabiniere.
Però allo sgomento che ho provato di fronte a un fatto così enorme, alla sensazione del fiato che manca come dopo aver ricevuto un pugno nello stomaco, si è aggiunto un senso di rabbia verso una comunità che ai comportamenti “fuorilegge” sembra essersi arresa.
Una comunità che piange un ragazzo ucciso ma continua a chiudere gli occhi sui coetanei che non smettono di muoversi in tre sul motorino, senza casco. Perchè “a Napoli così è normale“.
Una comunità che chiude gli occhi sul fatto che un quattordicenne (non un uomo!) possa fare un giro in motorino di sera con due amici che sono, rispettivamente, un latitante e un pregiudicato. Perchè “ce ne sono tanti”.
Sia chiaro: non c’è dubbio che un quattordicenne ammazzato, per di più dallo Stato, annichilisca qualsiasi tentativo di “giustificazione” o “motivazione”. E non c’è dubbio che la giustizia debba essere rapida, e la condanna esemplare. Nonostante la divisa. Anzi, ancor di più per la divisa.
Ma non si può far finta di non vedere che Davide Bifolco è stato ammazzato anche da quel contesto, e da tutti quegli occhi chiusi.