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Milano, la Colonna Infame.

Nel cuore della movida milanese, a pochi passi dalle “colonne di San Lorenzo”,  una scultura in bronzo (realizzata nel 2005 dall’artista Ruggero Menegon) ricorda un episodio risalente all’epidemia di peste del 1630. Sì, proprio quella raccontata da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”.

La Colonna Infame, Ruggero Menegon, bronzo, 2005.

Siamo all’angolo tra via Gian Giacomo Mora e Corso di Porta Ticinese. Oggi, tra negozi di abbigliamento, piccoli locali e qualche canapa-shop, il continuo via vai di giovani e turisti anima l’ampio e suggestivo piazzale antistante la Basilica di San Lorenzo Maggiore. All’epoca dei fatti in una delle umili abitazioni, quelle che le cronache definivano “nient’altro che catapecchie”, edificate nel corso del tempo proprio lì, intorno al quadriportico ed al colonnato della Basilica, vivevano le prime protagoniste della storia, Caterina Rosa e Ottavia Boni. Le due popolane, già di primo mattino affacciate alla finestra, dichiararono alle autorità di aver visto un uomo, con il viso nascosto da un cappello e un mantello nero, sfiorare i muri delle case lasciando delle macchie oleose e giallastre. 

In pochissimo tempo la paura della terribile epidemia e le superstizioni (esasperate dalla diffusione della malattia, a Milano i morti arrivarono a 64.000) trasformano una semplice “voce” in una certezza, e un uomo dall’andatura barcollante nel colpevole dei contagi: quello che le due donne avevano visto all’opera era senza dubbio un untore.

Le indagini condotte dal Capitano di Giustizia, tanto rapide quanto superficiali, portarono all’arresto del Commissario di Sanità Guglielmo Piazza. Semplici macchie d’inchiostro nero sulle sue mani, scambiate per i resti del misterioso unguento pestilenziale, bastarono a provare l’accusa e giustificare il ricorso alla tortura. 

Ai giudici non interessavano i fatti, né le spiegazioni razionali. A loro serviva un capro espiatorio su cui far sfogare la rabbia del popolo, sempre più impotente di fronte al propagarsi incontrollato della peste. Così, nella speranza di aver salva la vita, Piazza provò a fornirglielo, accusando a sua volta Gian Giacomo Mora. Barbiere di professione, anche lui abitava e lavorava nella zona di San Lorenzo. E tra i balsami, i saponi e i medicamenti tipici del mestiere (come tutti i barbieri del suo tempo svolgeva infatti anche funzioni di primo soccorso), conservava un preparato di sua creazione per lenire, o che quantomeno avrebbe dovuto lenire, le ferite degli ammalati. Quando le guardie nel corso della perquisizione della sua bottega ne trovarono i resti in una bacinella, si rese conto di non avere più scampo. Torturato per ore, pur di porre fine alle sofferenze pronunciò le parole che i giudici volevano sentire: a ungere i muri e diffondere la peste erano stati lui e Piazza.

Condannati a morte, una macabra processione li scortò dal Palazzo del Capitano di Giustizia sino al luogo delle esecuzioni, l’attuale piazza Vetra. Durante il tragitto furono tormentati con ferri roventi, e davanti alla bottega del Mora ai due fu amputata la mano destra. Quindi furono legati alla “ruota” e colpiti senza pietà. Agonizzarono, davanti alla folla che si era radunata nella piazza, per sei ore. Poi, i corpi vennero bruciati e le ceneri gettate nel canale della Vetra.

La casa del Mora si spiani, et in quel largo si drizzi una Colonna, la quale si chiami Infame et in essa si scrivi il successo, né ad alcuno sia permesso mai più riedificare detta casa (da “La sentenza data a Guglielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora”, 1631).  L’abitazione-bottega del Mora fu distrutta e sul posto, oltre alla Colonna, come monito ai cittadini fu apposta una lapide (oggi conservata al Castello Sforzesco) con la descrizione degli avvenimenti e le atroci pene inflitte ai colpevoli.

Lapide della Colonna Infame, Milano, Castello Sforzesco (Corte Ducale)

Qui dov’è questa piazza sorgeva un tempo la barbieria di Gian Giacomo Mora il quale congiurato con Guglielmo Piazza pubblico commissario di sanità e con altri, mentre la peste infieriva più atroce sparse qua e là mortiferi unguenti, e molti trasse a cruda morte. 

Questi due adunque giudicati nemici della patria, il senato comandò che sovra alto carro martoriati prima con rovente tanaglia e tronca la mano destra si frangessero colla ruota, e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati, poscia abbruciati e perché nulla resti d’uomini così scellerati, confiscati gli averi si gettassero le ceneri nel fiume.
A memoria perpetua di tale reato questa casa officina del delitto il Senato medesimo ordinò spianare e giammai rialzarsi in futuro, ed erigere una colonna che si appelli infame. 

Lungi adunque, lungi da qui buoni cittadini, che voi l’infelice infame suolo non contamini.

Dell’originale “colonna infame” non abbiamo nessuna traccia. Nel 1778, infatti, divenuta simbolo delle atrocità commesse all’epoca dalla “giustizia”, fu rimossa.

Dell’episodio, e del processo a Mora e Piazza, abbiamo invece un’ampia documentazione. Su tutte, il saggio “Storia della Colonna Infame” di Alessandro Manzoni (pubblicato in prima edizione nel 1840 come appendice a “I promessi sposi”). Molto più della cronaca di un episodio storico. Un’accusa, diretta e attualissima, all’ipocrisia, alla codardia, all’ignoranza, al pregiudizio e alla superficialità umana.

Sarebbe bello se, oggi, al monumento di Menegon, venisse dato maggior risalto. Se il punto in cui sorgeva la casa del Mora non fosse lasciato a confondersi tra banche, negozi e locali. E se al suo fianco fosse riportato questo breve passo, tratto dall’introduzione dell’opera:

L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli…

DDR. Come i fuochi d’artificio.

Come i fuochi d’artificio. Come l’esplosione fragorosa, rumorosa, improvvisa che ti fa sussultare. Come le luci di mille colori, che si confondono con le stelle. E quei secondi di silenzio tra uno e l’altro, quando il cielo torna buio e silenzioso. Qualcuno è così bello da lasciarti a bocca aperta, qualcuno ti fa sorridere, qualcuno ti delude. Ma tu rimani lì, con lo sguardo rivolto in alto, perché sai già che dopo pochi secondi arriveranno altre luci, altri colori. Anche quando hai capito di aver appena visto l’ultimo, perché l’ultimo si riconosce sempre, rimani lì.

Ecco, se penso ai 18 anni di Daniele De Rossi nella Roma, penso ai fuochi d’artificio. Di questo lungo spettacolo, ho scelto sei momenti. I miei preferiti.

Gli esordi.

Sì, al plurale. Perché nella Roma De Rossi ha debuttato due volte. 

In Champions League, il 30 ottobre del 2001. Con l’Anderlecht finisce 1-1. La Roma è già qualificata al secondo girone, e Capello, al 71esimo, sostituisce il redivivo Ivan Tomić  (peraltro, la migliore tra le sparute apparizioni del serbo con la maglia giallorossa) con un promettente diciottenne, biondo, e con i capelli tenuti fermi dall’immancabile elastico. Promettente, sicuramente. Ma ancora non così tanto da conquistarsi uno spazio stabile in una rosa che a centrocampo aveva gente del calibro di Tommasi, Emerson e Assunçao.

Infatti l’esordio vero e proprio, da titolare, arriva solo un’anno e mezzo dopo, in campionato. 10 maggio 2003, Roma-Torino 3-1. Non solo Al 55esimo il suo destro da fuori area (da molto fuori area…) è imparabile per Sorrentino. E’ il goal del 2-0. L’esultanza è così semplice e spontanea da sembrare quasi goffa. E’ felicità pura.

Fino a quel momento si parlava di cederlo in prestito per farlo crescere (storia già vista con un altro Capitano…). Capello in estate per il centrocampo aveva a lungo inseguito Edgar Davids. Ma da quel momento, nonostante l’annata negativa della squadra e sole quattro presenze (con due goal), inizia a farsi largo l’idea di non averne più bisogno…

Buttace i guanti.

9 Luglio 2006. Finale del Campionato del Mondo, Italia-Francia. Non ho una grande passione per la nazionale, ma il Mondiale è sempre il Mondiale. E quello del 2006, è un Mondiale particolare davvero. Calciopoli, Moggi, gli arbitri, la Juventus ecc. ecc. Ma quello che succede durante quel Campionato del Mondo, è un esempio perfetto del frenetico susseguirsi di errori e riscatti che hanno scandito la carriera di De Rossi. Vette altissime e abissi, onde travolgenti e placide risacche, litigi furiosi e baci appassionati. Tutto, sempre, a testa alta. Come un uomo, non solo come un calciatore.

Nel centrocampo azzurro è un giocatore fondamentale, il CT Lippi non ne fa mistero. Ma durante la seconda partita della fase a gironi, contro gli USA, colpisce con una gomitata al volto McBride. Viene espulso, giustamente, e squalificato per quattro giornate. Mondiale finito, dicono in molti. E poi via, con le solite note “di colore”: è immaturo, istintivo, violento, è il solito romano coatto, è un bullo di Ostia. 

Però quando Italia e Francia si giocano la finale a Berlino, non solo torna in campo (intorno al 60esimo, sostituisce Francesco Totti) ma è tra i cinque designati per i rigori che assegneranno il titolo. Calcia il terzo, fondamentale perché Trezeguet ha appena sbagliato. Tira forte, anzi fortissimo, all’incrocio dei pali. Poi sibila “e mo’ buttace i guanti, Barthez”.

Il carattere.

Ma non il temperamento sul campo. Non quella “vena gonfia” che a volte – troppe, forse – lo ha tradito, finendo per tradire lui con noi. Quello che gli ha permesso di affrontare e superare vicende che avrebbero fatto “deragliare” tanti. E che sciacalli dall’italiano zoppicante e dalla fedina penale spesso lurida, dai pulpiti di frequenze radiofoniche affittate e autogestite, non hanno avuto remore a gettare in pasto ad un’opinione pubblica gossippara e guardona, pronta a trasformare ogni errore in crimine e ogni critica in accusa. Sciacalli a cui ha avuto la forza di non sottomettersi e a cui non ha permesso di infamare allo stesso modo amici e colleghi. Che non ha esitato ha descrivere per quello che sono e per quello che valgono. Bugiardi? Calunniatori? Non solo, non proprio. Meglio papponi, che fanno i padroni a Trigoria (QUI) o maiali col microfono, che resteranno maiali col microfono (QUI).

E da quel momento, Capitan Ceres. Capitan Birretta. Sfregiato dai Casamonica. Ubriaco tutte le sere a Campo de’ Fiori. Capitan 6 milioni di euro. Non gioca una partita buona da 10 anni.  

Gli occhi.

20 aprile 2016. Roma-Torino 3-2. Sì, quella della doppietta di Totti in meno di 4 minuti. La Roma è sotto 1-2, il Capitano in panchina. E’ la fase finale della carriera, la penultima stagione e il rapporto con Spalletti è già ai minimi termini. Al 41esimo del secondo tempo viene mandato in campo come mossa della disperazione. Il resto è storia. Basta una manciata di secondi, punizione di Pjanic, sponda di Manolas e spaccata sul secondo palo. 2-2. Altri due minuti e Maksimovic devia con un braccio il cross di Perotti. Rigore, 3-2. I festeggiamenti sfiorano l’isteria, sul campo e sugli spalti. Mentre il Torino porta mestamente il pallone a metà campo l’inquadratura di Sky sfiora De Rossi in panchina. E’ questione di attimi, ha le labbra serrate e gli occhi lucidi, come chi fa di tutto per non scoppiare a piangere. Come noi, davanti alla tv o allo stadio. 

Gli occhi di De Rossi sono sempre stati anche gli occhi nostri.

Una vittoria.

La mia preferita: 19 agosto 2007. Sono gli anni in cui le competizioni sembrano un’affare privato tra Roma e Inter. E infatti è con loro che siamo a contenderci la Supercoppa. Al 72esimo Totti dalla fascia sinistra entra in area, sterza verso il centro e viene steso da Burdisso. L’arbitro Rosetti fischia il rigore (è talmente evidente che anche lui non può farne a meno). Sul dischetto, quando tutti si aspettano il Capitano, c’è De Rossi. Basso, forte, a fil di palo, alla destra del portiere. 0-1: gioco, partita, incontro. 

E’ solo una Supercoppa. E’ vero. Ma il momento successivo a quella vittoria credevo davvero che la storia della Roma avesse preso un’altra piega. Si è rivelata un’illusione. Ma meravigliosa.

Il 26 maggio.

Coppanfaccia, Lulic71, noncèrivincita. E le foto di De Rossi a capo chino. Gli striscioni sulla “giornataccia” appesi al Colosseo e i post non potevi fini’ che de 26 maggio. Beh, è vero. Perché questo fanno i capitani. Proteggono, prima di tutto. Quando è il caso si caricano sulle spalle le delusioni dei tifosi, per alleviargli il peso. Gli fanno scudo, e poi gli indicano la strada da seguire. E questo è quello che il destino gli ha concesso di fare anche nella sua ultima partita. Perché il 26 maggio, da stasera, è tutta un’altra storia. E’ tutta un’altra cosa. Quindi ok, coppanfaccia, Lulic71, noncèrivincita. Tanto chi un Capitano così non ce l’ha mai avuto, non lo può capire.

(Photo by Luciano Rossi/AS Roma/Getty Images)

Ecco, adesso anche l’ultimo fuoco d’artificio è scoppiato. Intorno s’è fatto tutto più silenzioso, e tutto è tornato più buio. Però non se ne va nessuno. Vogliamo stare ancora con la testa in su. 

A sperare che lo spettacolo duri ancora un po’.

Caracalla e la Constitutio Antoniniana. Civilizzazione o demagogia?

Busto di Caracalla al Museo Archeologico di Napoli

Con un editto del 212 a.C., la Constitutio Antoniniana, l’imperatore Marco Aurelio Severo Antonino Pio Augusto, noto con il soprannome di Caracalla, stabiliva la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, ad eccezione dei dediticii (i non romani formalmente privi di ogni altra appartenenza cittadina). Ancora oggi, la critica storica si divide nell’analisi. Fu un’azione civilizzatrice o un provvedimento demagogico? Un’affermazione di giustizia sociale o una sanzione formale del dispotismo? Caracalla fu solo l’uomo spietato e crudele descritto da Niccolò Machiavelli o un accorto uomo di stato? 

Il testo, seppur lacunoso, riportato sul Papiro di Gissen sembra suggerire un’interpretazione di grande lungimiranza. A muovere l’imperatore furono la necessità politico-amministrativa di evitare i ricorsi al sovrano per questioni riguardanti il possesso del diritto di cittadinanza, e la volontà di assimilare nel culto le divinità tradizionali e quelle introdotte nel Pantheon romano da ogni provincia in nome del sincretismo religioso. 

L’editto del 212 può quindi essere considerato il compimento di un processo politico, sociale e giuridico ormai maturo. Usando le parole dello storico inglese Howard Hayes Scullard: nel 212 le antiche distinzioni tra italici e provinciali, tra conquistatori e conquistati, tra popolo padrone e sudditi erano ormai cadute, e l’Impero diventato una grande comunità di popolazioni diverse per lingua e costumi, ma parificate nel godimento di uguali diritti.

Due secoli dopo, Rutilio Namaziano, celebrava Caracalla e la Constitutio con queste parole: delle diverse genti unica patria hai fatto; un bene è stato, per i popoli senza legge, il tuo dominio. E, offrendo ai vinti d’unirsi nel tuo diritto, tu del mondo hai fatto l’Urbe (De reditu suo, 1, 63-66).

Quasi due millenni dopo, la discussione sui diritti è ancora aperta.

Nella foto: busto di Caracalla al Museo Archeologico di Napoli. Noto come il “Caracalla Farnese”, la fama dell’opera crebbe nel Seicento e nel Settecento per la cattiva reputazione dell’imperatore. Tanto che Winckelmann la descrisse sostenendo che Lisippo stesso non avrebbe potuto realizzare un ritratto migliore di questo.

Lenuccia, Partigiana.

Nel settembre del 1943 Maddalena Cerasuolo aveva 23 anni. La chiamavano tutti “Lenuccia”. Con la sua paga da operaia in un calzaturificio, anzi – come si diceva allora – da “apparecchiatrice di scarpe”, sosteneva la famiglia, popolare e numerosa. Con i genitori, cinque sorelle e due fratelli viveva in un basso di vico della Neve a Materdei, a due passi dal Rione Sanità. 

Ecco, il papà. Una figura importante. Carlo Cerasuolo, cuoco presso la mensa dell’Ansaldo, medaglia d’argento al valor militare nella guerra italo-turca, monarchico e, soprattutto, antifascista. Anche con l’avvento del regime non aveva mai nascosto i suoi ideali, tanto da venire incarcerato più volte e sempre in occasione della visita in città di qualche importante gerarca. Quando, spontaneamente, persone di ogni estrazione sociale e di ogni occupazione, iniziarono a impugnare le armi contro l’occupazione nazista, Carlo e Maddalena non ebbero dubbi. E il 29 settembre alla notizia che per ordine di Hitler i guastatori tedeschi avrebbero minato il ponte della Sanità (così da interrompere i collegamenti con il centro della città) padre e figlia combatterono eroicamente fianco a fianco, con i partigiani dei rioni Stella e Materdei. La difesa del “ponte della Sanità” è uno degli ultimi episodi delle cosiddette “quattro giornate di Napoli”. Il 1° ottobre, infatti, quando i primi carri armati Alleati entrarono in città il comando tedesco in Italia, per bocca del feldmaresciallo Albert Kesselring, considerò conclusa la ritirata. Non si conclude quel giorno, invece, la storia di Lenuccia. Contattata dal comando inglese di stanza a Napoli, insieme ad alcuni dei partigiani che si erano distinti durante le “Quattro Giornate” iniziò a collaborare con i servizi segreti. Il suo nome diventò Maria o Anna Esposito, la sua sigla C22. E questa ragazza di 23 anni, che fino ad allora non era mai uscita da Napoli, continuò a combattere fascisti e nazisti.

50 anni dopo, il 30 settembre del 1994, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro partecipò alla cerimonia commemorativa della “Quattro Giornate di Napoli” tenendo Maddalena sotto il braccio. 

Oggi come allora, le arcate del ponte sovrastano il rione, sfiorando l’imponente cupola della Basilica di Santa Maria alla Sanità. Chi si concede una breve passeggiata, prima che lo sguardo sia attratto dalla maestosa sagoma del Vesuvio o dai pittoreschi scorci del quartiere, può notare una targa che la ricorda. Dal 31 marzo 2011, infatti, il ponte è stato ribattezzato “Ponte Maddalena Cerasuolo, Partigiana”.

Napoli, Ponte Maddalena Cerasuolo già “della Sanità”.

Kimi Räikkönen, l’uomo di ghiaccio che ha sconfitto le spie.

Secondo un sondaggio del magazine F1 Racing, Kimi Räikkönen è il secondo pilota più amato dai tifosi della Ferrari. Dopo Sua Maestà Michael Schumacher, ovviamente. Addirittura, e questo è davvero sorprendente, più di Gilles Villeneuve. Un risultato condizionato dalla “generazione” di lettori  (e votanti), non c’è dubbio, ma che fa capire quanto questo schivo finlandese non sia un pilota come un altro.

Arrivato a gareggiare in Formula 1 con alle spalle solo ventitré gare ufficiali in monoposto (concluse però con una incredibile percentuale di vittorie, 13 in totale tra campionato britannico e internazionale di Formula Renault), debutta al volante di una Sauber-Petronas nel Gran Premio d’Australia del 2001 grazie ad una Superlicenza Fia provvisoria. La Federazione Internazionale dell’Automobile, infatti, non voleva concedergli quella ufficiale a causa della mancata partecipazione al campionato di Formula 3000, categoria all’epoca considerata “propedeutica” alla Formula 1. Teoria tutta da dimostrare peraltro, visto che nessun campione di formula 3000 ha mai conquistato l’alloro iridato nella serie regina. Comunque, il suo debutto è impressionante: 6º posto, primo punto mondiale guadagnato, e tutte le perplessità sulle sue capacità di adattamento definitivamente superate. Sulle fasi che precedettero quella gara gli addetti ai lavori riportano un episodio molto particolare. Ai limiti della leggenda, ma che rende perfettamente idea del perché il soprannome IceMan, che si è persino tatuato sull’avambraccio sinistro, non sia dovuto solo al clima della sua terra d’origine: sembra infatti che Kimi, pochi minuti della partenza, mentre i meccanici si affannavano negli ultimi concitati ritocchi alla sua monoposto, fosse così tranquillo da addormentarsi nell’abitacolo…

Kimi Raikkonen Sauber Petronas 2001
Kimi Räikkönen, Sauber-Petronas, 2001.

Anche se alla fine del campionato i punti conquistati furono solo 9, le prestazioni convinsero Ron Dennis ad investire su di lui, versando la somma di 50 milioni di euro pur di averlo, dalla stagione seguente, al volante della McLaren al fianco del veterano David Coulthard. C’era da raccogliere la pesante eredità lasciata dal connazionale (due volte iridato) Mika Hakkinen. A chi lo interrogava sull’ingente somma versata, il patron del team di Woking rispondeva ammettendo che 50 milioni di euro erano “tanti per un pilota ma non per un campione del mondo”.

Kimi Raikkonen McLaren

In effetti, non aveva sbagliato previsione. Quelli in McLaren (2002-2006) sono anni positivi, nonostante la macchina non sia più quella del triennio 1998-2000 Räikkönen cerca di contrastare il dominio della Ferrari di Schumacher prima, e della Renault di Alonso poi. Due volte arriva a sfiorare il titolo. Nel 2003 raccoglie 91 punti, solo 2 in meno del pilota tedesco; nel 2005 i due contendenti conquistano 7 vittorie ciascuno, ma i piazzamenti premiano lo spagnolo.

Eppure Kimi Räikkönen non è un pilota come un altro. E viene chiamato a raccogliere un’altra eredità pesante. Pesantissima, stavolta. Come consuetudine, al termine del Gran Premio d’Italia 2006, la Ferrari annuncia la coppia di piloti per la stagione successiva. E dopo 11 anni, sul comunicato che viene diffuso non è riportato il nome di Michael Schumacher. La notizia era nell’aria già da un po’, Schumi ha deciso di ritirarsi (non sarà proprio così, ma questa è un’altra storia…). E la Scuderia di Maranello, per affiancare Felipe Massa, ha scelto questo finlandese silenzioso e velocissimo.

Il caso vuole che mentre le agenzie di stampa, i telecronisti e gli inviati annunciano la notizia, Schumacher e Räikkönen siano sul podio insieme. Il tedesco, primo, ha approfittato del ritiro di Fernando Alonso per rientrare in piena lotta mondiale. Il finlandese, secondo, può dimenticare le opache prestazioni della McLaren e iniziare a godersi la “sua” folla rossa.

Michael Schumacher e Kimi Raikkonen sul podio del Gran premio di Monza

Ancora una volta, il debutto è di quelli che non si dimenticano. Il 18 Marzo, in Australia, al volante della F2007 centra pole position, giro veloce e vittoria (rimasta per qualche ora sub iudice per degli inconsueti e accuratissimi controlli da parte dei commissari di gara sul sistema di distribuzione dei pesi della vettura, che comunque ne confermeranno la piena regolarità).

Solo due piloti sono stati in grado di fare la stessa cosa alla prima gara in Ferrari. Si tratta di due leggende della Formula 1: Juan Manuel Fangio e Nigel Mansell.

Sulla scaletta del podio Jean Todt gli accosta il cellulare all’orecchio, Michael Schumacher vuole complimentarsi con lui. Uno scambio di parole brevissimo, pochi secondi, e “click”, il telefono torna nelle mani del Direttore Generale. “Mi ha fatto i complimenti per la vittoria ma ho dovuto riattaccare perché non si sentiva bene”.

Kimi Raikkonen, Ferrari F2007.
Kimi Räikkönen, Ferrari F2007.

Il campionato è (a dir poco) movimentato. Dopo una prima parte di stagione estremamente positiva (una vittoria e due podi per Räikkönen, due vittorie e un podio per Massa), nella fase centrale del campionato la McLaren-Mercedes riesce a recuperare il gap iniziale e ribaltare la situazione grazie al talento del debuttante Lewis Hamilton e alla grinta del Campione del Mondo in carica Fernando Alonso.

Solo grazie ai piloti? Forse.

Perché nei primi giorni di Luglio succede qualcosa di strano. La Ferrari annuncia il licenziamento di Nigel Stepney, storico capo-meccanico della Scuderia e, pochi giorni dopo, la denuncia dello stesso Stepney e di un tecnico della McLaren-Mercedes, Mike Coughlan. I due si conoscono bene. Hanno lavorato insieme agli inizi degli anni Novanta, e da qualche mese intrattengono una fitta corrispondenza.

Le accuse sono pesantissime: sabotaggio e spionaggio industriale. Prima del Gran Premio di Monaco Stepney avrebbe inserito nei serbatoi delle vetture di Räikkönen e Massa una polvere bianca – i RIS di Parma scopriranno essere fertilizzante – per provocare il “grippaggio” del motore e, in occasione del Gran Premio di Spagna, avrebbe consegnato al suo “collega” informazioni riservate. Per la conferma non c’è bisogno di investigatori ed analisi. Basta l’onestà del tipografo inglese incaricato da Coughlan di fotocopiare il faldone di oltre 300 pagine contenente disegni e dati relativi alla F2007.

Non sembrano esserci dubbi, ma al termine dell’inchiesta il Consiglio Mondiale della FIA sembra credere ai proclami di completa estraneità ai fatti della McLaren. Il 26 luglio, infatti, il team anglo-tedesco viene ritenuto colpevole, ma è riconosciuta la mancanza di prove sull’effettivo utilizzo delle informazioni ottenute. E per questo motivo non vengono inflitte sanzioni. A fare ricorso contro la sentenza è lo stesso presidente della FIA Max Mosley: “Invierò il dossier alla Corte d’Appello, affinché vengano ascoltate sia la Ferrari sia la McLaren sia qualsiasi partecipante al campionato al fine di determinare se la decisione del Consiglio Mondiale sia stata appropriata o, altrimenti, di proporre una decisione più giusta”.

Prima della seconda udienza (fissata per il 13 settembre) però vengono portati alla luce ulteriori (e decisivi) elementi. In particolare, una serie di comunicazioni tra Fernando Alonso e il collaudatore Pedro de la Rosa. Le email e gli sms tra i due dimostrano inequivocabilmente come la tesi difensiva della McLaren sia priva di fondamento. I piloti, infatti, progettano di sperimentare nel corso dei test gli stessi accorgimenti della Ferrari su impianto frenante e distribuzione dei pesi. Sì, proprio quella distribuzione dei pesi inspiegabilmente finita sotto la lente d’ingrandimento dei commissari dopo la vittoria di Räikkönen nel Gran Premio di Australia (non poi così “inspiegabilmente” se qualcuno ne fosse stato già a conoscenza…). E’ evidente quindi come le informazioni non fossero in possesso del solo Coughlan. La nuova sentenza arriva il giorno successivo, ed è notevolmente meno clemente: la McLaren-Mercedes viene squalificata dal mondiale costruttori e le viene inflitta una multa di 100 milioni di dollari.

Quando dalle carte bollate e dai tribunali la sfida torna in pista, nonostante la doppietta rossa nel Gran Premio del Belgio (solo due giorni dopo la conclusione di quella che da giornali e TV era stata ormai ribattezzata “Spy-Story”) il campionato sembra sempre saldamente nelle mani della scuderia di Woking e dei sui piloti. A due Gran Premi dalla conclusione, infatti, Hamilton è in vantaggio di 17 punti su Räikkönen e di 10 su Alonso. Per i media il 22enne inglese ha il titolo in tasca. In molti casi viene già definito il “campione del mondo più giovane della storia della Formula 1”, come se avesse già strappato il record ottenuto dal compagno di squadra nel 2005. Forse è proprio questo uno dei motivi per cui la rivalità tra Hamilton e Alonso – accesa fin dai primi test invernali – diventa, di colpo, feroce. E per la prima volta dall’inizio della stagione, l’inglese sembra soffrirla.

Räikkönen invece, fedele al suo soprannome (e, in un certo senso, al suo personaggio) non si scompone. Vince il Gran Premio di Cina, e approfittando di un grossolano errore di Hamilton (finito nella ghiaia all’ingresso della corsia box) si porta a -7 dal leader. Alonso, giunto secondo, a -4.

Anche se tutti gli addetti ai lavori continuano a ritenere la vittoria finale una questione di “casa McLaren”, il 21 ottobre, nel Gran Premio del Brasile, diventa subito chiaro a tutti che la Ferrari ha intenzione di giocarsi a fondo le sue chance. E che la tranquillità del finlandese – quella che, nei momenti critici della stagione, i suoi detrattori hanno scambiato, e scambieranno ancora, per menefreghismo – può fare la differenza fin dalla prima curva sul temperamento degli altri due contendenti. Mentre le Ferrari, anche grazie ad un perfetto gioco di squadra, scappano imponendo alla gara un ritmo forsennato, Hamilton e Alonso si affrontano senza esclusione di colpi. Ad avere la peggio è l’inglese che, dopo essere stato costretto ad allungare la traiettoria della prima curva per difendersi dall’attacco del compagno, evitando per un soffio la collisione, si trova in fondo al gruppo.

La rimonta è rabbiosa, ma destinata a fallire definitivamente quando, a metà gara, un problema al cambio lo costringe di nuovo a perdere posizioni. Kimi, nel frattempo, guida come sa fare. Veloce, molto, e senza sbavature. Segue il ritmo dettato dal compagno di squadra nella prima parte di gara e con una serie di giri su tempi da qualifica approfitta del secondo pit stop per superarlo. Quando taglia il traguardo, la torcida sugli spalti lo applaude come fosse brasiliano. A nulla servono il terzo posto di Alonso e il settimo di Hamilton. A nulla serve il patetico ricorso fatto dalla McLaren per presunte irregolarità nelle benzine di Williams e Sauber.

Kimi Räikkönen e la sua Ferrari numero 6 sono campioni del mondo.

E’ una vittoria insperata e bellissima, destinata a rimanere nella storia.

Per il finlandese si avvera – finalmente – la previsione di Ron Dennis. Ma alla prima stagione a Maranello. E questo, per i tifosi, commossi, rende tutto ancora più bello.

Raikkonen campione del mondo 2007

Credo che la carriera altalenante di Kimi Räikkönen sia quella di un leggendario pilota “d’altri tempi”. Con i suoi silenzi, le sue smorfie, la sua incostanza, è facile immaginarlo al volante di una March, una Tyrrell, una Brabham. Invece, lo abbiamo visto vincere con la Ferrari. Solo una volta, è vero. E ormai tanto tempo fa.

Ma intanto, oggi, dopo l’annuncio della seconda separazione tra il campione finlandese e la Ferrari, penso sia giusto ricordare come quello che è riuscito a lui non sia ancora riuscito a nessun altro.

Charles Leclerc, il gioiello formato dalla Ferrari Driver Academy che sostituirà Räikkönen dalla prossima stagione, ha definito l’approdo in Ferrari “un sogno che si avvera”. Un sogno che a un altro grande talento dell’automobilismo è stato negato dal più crudele dei destini. Alla memoria di Jules Bianchi voglio dedicare questa Storia.