La stagione della Ferrari non può essere definita deludente. Deludente è stata quella 2015, dove nonostante tre vittorie non si è mai riuscita ad inserire nella lotta per il titolo. O quella 2013, quando dopo un inizio promettente si è progressivamente allontanata dal vertice. No, quella di quest’anno non è stata deludente. E’ stata una collezione (enorme) di figuracce (enormi). Un continuo susseguirsi di dichiarazioni altisonanti e disastri tecnici, di promesse d’arrembaggio e grossolani errori strategici, di proclamati riscatti e assurdi ritiri. Conclusa con l’apoteosi di Abu Dhabi, con la resa talmente incondizionata del muretto (sbagliate entrambe le strategie nonostante due piloti evidentemente “in palla”) da puzzare di voglia di stare lontano dai guai e non immischiarsi nella sfida tra i due piloti Mercedes. Dunque, io ho sopportato i 21 anni senza titolo piloti, figuriamoci se mi spaventa questo periodo di crisi. Ho sopportato le più deliranti coppie di progettisti, Migeot-Nichols e la F92A col doppio fondo piatto, Barnard-Brunner e la 421T con le prese d’aria a goccia. Ho sopportato le delusioni cocenti all’ultima gara del 1997, del 1998 e del 1999. Ho sopportato la truffa Hamilton-Glock del 2008. Ho sopportato pure ‘sto maledetto bianco sulla livrea (che lo sanno tutti che porta sfiga, ma come vi viene in mente?). Ma una Ferrari sottomessa, no. Quella non la posso sopportare.
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Lazio-Roma 1-4. Timori.
Lo temevo, ‘sto derby.
E non per l’irrazionalità tattica o l’isteria agonistica tipiche della stracittadina. Né per la logorante attesa a causa della sosta. Tantomeno per gli stucchevoli rumors di mercato su Pjanic, Nainggolan e Manolas. Figuriamoci se per le deliranti intemerate di Caressa sull’ultimo derby di Totti da titolare.
Io temevo la Lazio.
Sì. Temevo gli ubriacanti dribbling a rientrare di Felipe Anderson, le improvvise botte dalla distanza di Candreva, gli implacabili stacchi di testa di Klose, gli scatti brucianti sul filo del fuorigioco di Matri. Temevo che un trio di centrocampo composto da Pjanic, Keita e Nainggolan, sebbene organizzati tatticamente e tirati a lucido fisicamente, non potesse nulla contro la fisicità di Parolo, il dinamismo di Cataldi, la visione di gioco di Biglia.
Temevo che l’imprevedibilità di El Shaarawy, l’ubriacante velocità di Salah e la lussuriosa tecnica di Perotti non avessero chance contro l’esperienza di Bisevac, il passo di Braafheid, il senso della posizione di Patric e quello dell’anticipo di Hoedt.
Lo temevo, ‘sto derby. Lo temevo eccome.
Poi, però, me so’ svegliato. Ho preso un diger selz e maledetto la peperonata della sera prima.
Quando ho acceso la tv trasmettevano un’amichevole precampionato. Peccato, la Roma ha vinto solo 1-4. C’era da aspettarsi di meglio, è vero. Ma quando gli avversari so’ così scarsi prima della partita l’allenamento si fa lo stesso. Si vede che le gambe erano un po’ imballate…
29 dicembre, #ForzaMichael.
Chi ha una passione se la porta dentro sempre.
Anche se a volte diventa un fagotto complicato da portarsi appresso, la passione.
Perché quando delude è una delusione cocente, che sembra ti marchi a fuoco per sempre. Ma sono proprio quelle delusioni cocenti che rendono indimenticabili le gioie. Anche se, quantitativamente, sono meno.
Ma in entrambi i casi ti ricordi tutto, e tutti. Dove stavi. Chi c’era. Chi non c’era. Un gesto, una parola, una risata, un’imprecazione. A volte qualche lacrima. Ti ricordi a chi devi le gioie. E chi ha causato i dolori. In uno scambio reciproco continuo, tra passione e appassionato. Tra tela e pittore, tra squadra e ultras, tra strumento e musicista.
Tra scuderia e tifoso.
Perché se i miei occhi di appassionato ferrarista hanno accompagnato tutta la carriera di Michael Schumacher, è altrettanto vero che le vittorie e le sconfitte di Michael Schumacher hanno accompagnato molte (praticamente quasi tutte) fra le cose più rilevanti della mia vita.
La vittoria sotto il diluvio a Barcellona nel 1996.
La ruotata maldestra alla Williams di Villeneuve nel 1997.
L’incidente di Silverstone nel 1999.
Il titolo mondiale vinto a Suzuka nel 2000. A farmi capire quant’è bello, finalmente, poter piangere di gioia. E i 4 seguenti. Con i quali mi piace pensare mi abbia voluto risarcire per i ventuno anni passati ad aspettare.
L’annuncio dell’addio dopo la vittoria a Monza nel 2006.
Il quarto posto di San Paolo. Quando a nessuno interessava più della vittoria di Massa e di Alonso campione del mondo, perché la Ferrari numero 5 stava rimontando dall’ultimo posto a furia di sorpassi all’esterno e staccate mozzafiato.
La speranza del ritorno nel 2009.
E poi il 29 dicembre dell’anno scorso. E l’inaccettabile banalità della normalità. Quando cadendo non contano i titoli mondiali, i sorpassi, le staccate.
Però un tifoso appassionato fa il tifo sempre. Anche quando non serve. Anzi, soprattutto quando non serve. E anche quando le cose vanno male vede comunque la vittoria.
Non ora, va bene. Ma magari tra un po’. Più in là.
E’ questo il bello delle passioni.
Perciò forza, Michael.