Foto Fabio Rossi/AS Roma/LaPresse 29/04/2021 Manchester (UK)
Dopo la partita mi è venuto in mente Jonathan Zebina. Spiego (meglio). Mi è venuto in mente quando il problema della difesa della Roma si chiamava Jonathan Zebina. Che rispetto ai compagni di reparto (per carità, erano difensori del calibro di Aldair, Samuel, Zago, Panucci, non proprio Pippo, Pluto e Paperino) veniva considerato una “pippa”, e ogni volta che un suo errore risultava decisivo si parlava e scriveva di una “zebinata”.
Dunque. E’ evidente che il problema oggi non sia la presenza in rosa di uno o più Zebina. Purtroppo, però. Nel senso che ad avercelo sarebbe un lusso. Perchè la rosa di questa stagione è con ogni probabilità la più scarsa degli ultimi venti anni. Scarnificata da sessioni di mercato presuntuose, sfibrata nella personalità, ciclicamente ferita nell’amor proprio, periodicamente fiaccata da lungodegenze che forse solo nei lazzaretti dei Promessi Sposi.
Però questa stessa Roma incerta, zoppicante, balbettante, con ogni probabilità la più scarsa degli ultimi vent’anni, in semifinale di Europa League c’è arrivata. Come? Non importa. Come ci sarebbero potute arrivare il Milan, il Tottenham, il Benfica o – due a caso – Shakhtar Donetsk e Ajax (non proprio Vigor Lamezia e Aversa Normanna).
Poi, c’era da aspettarselo. L’asticella si è alzata, la disparità tecnica è diventata incolmabile. Quella fisica semplicemente imbarazzante, come impietosamente sottolineato dal primo caso di portiere amputato dal tiro di un avversario.
E allora, è andata come è andata. Cioè male, molto male. Che sia la stagione sbagliata di una squadra sbagliata è evidente. Però esserci, provarci, non è mai una vergogna.
Come i fuochi d’artificio. Come l’esplosione fragorosa, rumorosa, improvvisa che ti fa sussultare. Come le luci di mille colori, che si confondono con le stelle. E quei secondi di silenzio tra uno e l’altro, quando il cielo torna buio e silenzioso. Qualcuno è così bello da lasciarti a bocca aperta, qualcuno ti fa sorridere, qualcuno ti delude. Ma tu rimani lì, con lo sguardo rivolto in alto, perché sai già che dopo pochi secondi arriveranno altre luci, altri colori. Anche quando hai capito di aver appena visto l’ultimo, perché l’ultimo si riconosce sempre, rimani lì.
Ecco, se penso ai 18 anni di Daniele De Rossi nella Roma, penso ai fuochi d’artificio. Di questo lungo spettacolo, ho scelto sei momenti. I miei preferiti.
Gli esordi.
Sì, al plurale. Perché nella Roma De Rossi ha debuttato due volte.
In Champions League, il 30 ottobre del 2001. Con l’Anderlecht finisce 1-1. La Roma è già qualificata al secondo girone, e Capello, al 71esimo, sostituisce il redivivo Ivan Tomić(peraltro, la migliore tra le sparute apparizioni del serbo con la maglia giallorossa) con un promettente diciottenne, biondo, e con i capelli tenuti fermi dall’immancabile elastico. Promettente, sicuramente. Ma ancora non così tanto da conquistarsi uno spazio stabile in una rosa che a centrocampo aveva gente del calibro di Tommasi, Emerson e Assunçao.
Infatti l’esordio vero e proprio, da titolare, arriva solo un’anno e mezzo dopo, in campionato. 10 maggio 2003, Roma-Torino 3-1. Non solo Al 55esimo il suo destro da fuori area (da molto fuori area…) è imparabile per Sorrentino. E’ il goal del 2-0. L’esultanza è così semplice e spontanea da sembrare quasi goffa. E’ felicità pura.
Fino a quel momento si parlava di cederlo in prestito per farlo crescere (storia già vista con un altro Capitano…). Capello in estate per il centrocampo aveva a lungo inseguito Edgar Davids. Ma da quel momento, nonostante l’annata negativa della squadra e sole quattro presenze (con due goal), inizia a farsi largo l’idea di non averne più bisogno…
Buttace i guanti.
9 Luglio 2006. Finale del Campionato del Mondo, Italia-Francia. Non ho una grande passione per la nazionale, ma il Mondiale è sempre il Mondiale. E quello del 2006, è un Mondiale particolare davvero. Calciopoli, Moggi, gli arbitri, la Juventus ecc. ecc. Ma quello che succede durante quel Campionato del Mondo, è un esempio perfetto del frenetico susseguirsi di errori e riscatti che hanno scandito la carriera di De Rossi. Vette altissime e abissi, onde travolgenti e placide risacche, litigi furiosi e baci appassionati. Tutto, sempre, a testa alta. Come un uomo, non solo come un calciatore.
Nel centrocampo azzurro è un giocatore fondamentale, il CT Lippi non ne fa mistero. Ma durante la seconda partita della fase a gironi, contro gli USA, colpisce con una gomitata al volto McBride. Viene espulso, giustamente, e squalificato per quattro giornate. Mondiale finito, dicono in molti. E poi via, con le solite note “di colore”: è immaturo, istintivo, violento, è il solito romano coatto, è un bullo di Ostia.
Però quando Italia e Francia si giocano la finale a Berlino, non solo torna in campo (intorno al 60esimo, sostituisce Francesco Totti) ma è tra i cinque designati per i rigori che assegneranno il titolo. Calcia il terzo, fondamentale perché Trezeguet ha appena sbagliato. Tira forte, anzi fortissimo, all’incrocio dei pali. Poi sibila “e mo’ buttace i guanti, Barthez”.
Il carattere.
Ma non il temperamento sul campo. Non quella “vena gonfia” che a volte – troppe, forse – lo ha tradito, finendo per tradire lui con noi. Quello che gli ha permesso di affrontare e superare vicende che avrebbero fatto “deragliare” tanti. E che sciacalli dall’italiano zoppicante e dalla fedina penale spesso lurida, dai pulpiti di frequenze radiofoniche affittate e autogestite, non hanno avuto remore a gettare in pasto ad un’opinione pubblica gossippara e guardona, pronta a trasformare ogni errore in crimine e ogni critica in accusa. Sciacalli a cui ha avuto la forza di non sottomettersi e a cui non ha permesso di infamare allo stesso modo amici e colleghi. Che non ha esitato ha descrivere per quello che sono e per quello che valgono. Bugiardi? Calunniatori? Non solo, non proprio. Meglio papponi, che fanno i padroni a Trigoria (QUI) o maiali col microfono, che resteranno maiali col microfono (QUI).
E da quel momento, Capitan Ceres. Capitan Birretta. Sfregiato dai Casamonica. Ubriaco tutte le sere a Campo de’ Fiori. Capitan 6 milioni di euro. Non gioca una partita buona da 10 anni.
Gli occhi.
20 aprile 2016. Roma-Torino 3-2. Sì, quella della doppietta di Totti in meno di 4 minuti. La Roma è sotto 1-2, il Capitano in panchina. E’ la fase finale della carriera, la penultima stagione e il rapporto con Spalletti è già ai minimi termini. Al 41esimo del secondo tempo viene mandato in campo come mossa della disperazione. Il resto è storia. Basta una manciata di secondi, punizione di Pjanic, sponda di Manolas e spaccata sul secondo palo. 2-2. Altri due minuti e Maksimovic devia con un braccio il cross di Perotti. Rigore, 3-2. I festeggiamenti sfiorano l’isteria, sul campo e sugli spalti. Mentre il Torino porta mestamente il pallone a metà campo l’inquadratura di Sky sfiora De Rossi in panchina. E’ questione di attimi, ha le labbra serrate e gli occhi lucidi, come chi fa di tutto per non scoppiare a piangere. Come noi, davanti alla tv o allo stadio.
Gli occhi di De Rossi sono sempre stati anche gli occhi nostri.
Una vittoria.
La mia preferita: 19 agosto 2007. Sono gli anni in cui le competizioni sembrano un’affare privato tra Roma e Inter. E infatti è con loro che siamo a contenderci la Supercoppa. Al 72esimo Totti dalla fascia sinistra entra in area, sterza verso il centro e viene steso da Burdisso. L’arbitro Rosetti fischia il rigore (è talmente evidente che anche lui non può farne a meno). Sul dischetto, quando tutti si aspettano il Capitano, c’è De Rossi. Basso, forte, a fil di palo, alla destra del portiere. 0-1: gioco, partita, incontro.
E’ solo una Supercoppa. E’ vero. Ma il momento successivo a quella vittoria credevo davvero che la storia della Roma avesse preso un’altra piega. Si è rivelata un’illusione. Ma meravigliosa.
Il 26 maggio.
Coppanfaccia, Lulic71, noncèrivincita. E le foto di De Rossi a capo chino. Gli striscioni sulla “giornataccia” appesi al Colosseo e i post non potevi fini’ che de 26 maggio. Beh, è vero. Perché questo fanno i capitani. Proteggono, prima di tutto. Quando è il caso si caricano sulle spalle le delusioni dei tifosi, per alleviargli il peso. Gli fanno scudo, e poi gli indicano la strada da seguire. E questo è quello che il destino gli ha concesso di fare anche nella sua ultima partita. Perché il 26 maggio, da stasera, è tutta un’altra storia. E’ tutta un’altra cosa. Quindi ok, coppanfaccia, Lulic71, noncèrivincita. Tanto chi un Capitano così non ce l’ha mai avuto, non lo può capire.
(Photo by Luciano Rossi/AS Roma/Getty Images)
Ecco, adesso anche l’ultimo fuoco d’artificio è scoppiato. Intorno s’è fatto tutto più silenzioso, e tutto è tornato più buio. Però non se ne va nessuno. Vogliamo stare ancora con la testa in su.
La questione – così sanguinosa – poteva essere gestita in tanti modi.
Ad esempio:
DA INNAMORATO. Quanti anni di contratto vuoi? Uno? Ma tu sei pazzo? Figuriamoci, non se ne parla neanche. Ma guarda questo, uno. Ne vuole uno. Io di anni di contratto te ne faccio altri tre, quattro, cinque, dieciiiiiiii!!!!!!!
DA MANGER (ANCHE PRIVO DI SCRUPOLI). Valutando negativamente il risultato di un’accurata analisi costi-benefici per il rinnovo di contratto di un giocatore di 36 anni (importantissimo ma evidentemente e inevitabilmente al termine della carriera), ritenendolo però un “patrimonio” prezioso per la società e della società, si opta per una proposta a condizioni economiche “simboliche” così da poter, nel frattempo, formarlo per intraprendere una seconda fase professionale nei quadri tecnici e/o dirigenziali.
DA IDIOTI. Valutando negativamente il risultato di un’analisi costi-benefici (chissà quanto e se accurata) per il rinnovo di contratto di un giocatore di 36 anni considerato all’inesorabile termine della carriera, si decide di non procedere. Non solo. Si decide di non procedere dopo aver clamorosamente fallito l’acquisto (quello sì davvero economicamente pesante) del giocatore che ne avrebbe dovuto ereditare il ruolo, quantomeno in campo. Non solo. Si decide di non procedere e gli si fa una proposta ridicola. Anzi insultante. Perché pensare di nominare Daniele De Rossi “vice” di un tale incomprensibilmente diventato CEO della Roma non è una proposta. E’ una presa in giro.
Ora, la soluzione che avrei scelto io è, ovviamente, la prima. Aggiungendo di mio un Oscar e tre/quattro David di Donatello alla signora. Così, tanto per. Quella scelta dalla AS Roma non credo ci sia neanche bisogno di specificarla.
Aggiungo una postilla. Proporre a De Rossi di diventare vice-CEO (che poi, che carica è vice-CEO?) vuol dire chiaramente ritenere – e dichiarare – Francesco Totti inadatto ad assumere ruoli di vertice nella Roma Stessa. Una cazzata al quadrato.
Diciamo che la notte ha portato consiglio, e ok tra Alisson e Olsen c’è la differenza che passa tra la Ferrari e la Force India. Pastore è quanto di più diverso si possa immaginare (non solo per il look) da Nainggolan. E per la cessione di Strootman all’ultimo secondo utile di mercato, non c’è acquisto di N’Zonzi che tenga.
Ma se per una volta, al posto della riserva (Karsdorp) ti sei potuto addirittura permettere di far entrare la riserva della riserva (Santon) senza attingere alla primavera, a sconsiderati adattamenti o a irripetibili madonne, non riesco a credere che la colpa della sconfitta e della prestazione ignobile contro un Milan mediocre (perchè diciamocelo, bellini Leonardo, Kakà e Maldini in tribuna, pittoresco Gattuso in panchina, elegante il presidente Scaroni, ricchissimo il fondo Elliott, ma il Milan esprime un calcio mediocre) sia colpa solo del mercato.
E non di un modulo assurdo (3-4-1-2), con così tanti giocatori fuori ruolo (e in alcuni casi anche fuori condizione) che al termine delle sostituzioni e dei progressivi aggiustamenti (3-4-3 e poi 4-2-3-1) te n’è addirittura avanzato uno. E hai finito (un’altra volta) con Schick esterno destro, fuori ruolo, fuori condizione, fuori proprio dalla partita.
Ora, la Roma si sarà pure indebolita, per carità, lo vedremo nelle prossime giornate. Ma non mi pare che il problema – ahimè – sia solo quello.