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Torino. 10 anni fa.

Frequentatissimo negozio di abbigliamento del centro. Lo sguardo è sempre rivolto sui vestiti esposti, sugli scaffali, sui manichini. Qualcuno, annoiato, si muove fissando il cellulare. Sbatte, chiede scusa, si sposta e continua a digitare. C’è solo un punto in cui tutti guardano per terra, anche solo per un attimo. Sulle scale mobili, quando il piede si appoggia sul gradino e chiunque ha paura di inciampare (e della conseguente figuraccia). Ed è proprio lì, infatti, che l’azienda produttrice ha messo il logo. Lucido, vistoso. Solo che oggi è 5 dicembre e il logo ThyssenKrupp sembra davvero troppo lucido e troppo vistoso. Perché quella di dieci anni fa è una storia con cui è impossibile fare pace.

“Il primo è Rocco Marzo, il capoturno, che aveva addosso la radio e il telefono interno, bruciati nel primo secondo. Appare all’improvviso, al passaggio tra la linea 4 e la 5. Non avevo mai visto un uomo così. Anzi sì: dal medico, su quei tabelloni dov’è disegnato il corpo umano senza pelle, per mostrarti gli organi interni. La stessa cosa. Le fasce muscolari, i nervi, non so, tutto in vista. Occhi e orecchie, non parliamone. Non mi vede, non può vedere, ma sente la mia voce che lo chiama, si gira, barcolla, mi riconosce. “Avvisa tu mia moglie, Giovanni, digli che mi hai visto, che sto in piedi, non li far preoccupare”. Lo tocco, poi mi fermo, non devo. Ha la pelle, ma non è più pelle. E’ come una cosa dura e sciolta.

Un operatore di qualità continua a saltarmi attorno. “Cosa facciamo?”. Mando via tutti quelli che piangono, che urlano, che sono sotto choc e non servono, non aiutano. Dico di non toccare Rocco, di scortarlo con la voce fuori: gli chiedo se se la sente di seguire i compagni, di seguire la voce. Va via, lo guardo mentre dondola e sembra cadere a ogni passo. Mi sembra di impazzire. Mi butto avanti, tutta la campata è piena di fumo nero, bruciano i cavi di gomma, i tubi con l’acido, i manicotti.

Vedo Boccuzzi che corre in giro a cercare una pompa, mi vede e mi urla in faccia: “Li ho tirati fuori, li ho tirati fuori. Ma Antonio Schiavone è vivo e sta bruciando lì per terra”. In quel momento Schiavone urla nel fuoco. Tre grida. E tutte e tre le volte Toni Boccuzzi cerca di gettarsi tra le fiamme e dobbiamo tenerlo, ma lui ripete come un matto: “Il fuoco lo sta mangiando”. Dico di portarlo via, fuori.

Mi volto, e mi sento chiamare: “Giovanni, Giovanni”. Non ci credo, guardo meglio, non si vede niente. Sono Bruno Santino e Giuseppe Demasi, due fantasmi bruciati, consumati dal fuoco eppure in piedi. Non mi sentono più parlare, non sanno dove andare, in che direzione cercare, sono ciechi. Poi Demasi si muove, barcolla verso la linea 4 tenendosi le mani davanti, come se fosse preoccupato di essere nudo. Mi avvicino e lo chiamo, si volta, chiama Bruno. Guardo la loro pelle scivolata via, non so cosa dire e loro mi cercano: “Giovanni, sei qui vicino? Guardaci, guardaci la faccia: com’è? Cosa ci siamo fatti, Giovanni?”

[testo tratto da “Thyssen Opera Sonora”, di Ezio Mauro]

Thyssen Torino dieci anni

Perchè sono d’accordo con Poletti.

Premesso che credo, senza ombra di dubbi, che il lavoro debba essere pagato.

Premesso che questo concetto l’ho pubblicamente espresso qui. Sottolineato qui. E ribadito, anche se in un altro contesto, qui.

Premesse tutte queste cose (ad uso e consumo dei “professionisti della polemica sbagliata” pentastellati e falceemartellati) ecco perchè, sulla possibilità per gli studenti di effettuare stage di lavoro nel periodo estivo – ebbene sì, proprio nelle “vacanze” – io sono d’accordo con il Ministro Poletti:

– Sono d’accordo perchè è una possibilità, non un obbligo.

– Sono d’accordo perchè un progetto di stage che sia ideato, progettato e realizzato in accordo con la scuola è fonte di stimolo, non di sfruttamento.

– Sono d’accordo perchè so di cosa si sta parlando. Perchè l’ho fatto ininterrottamente, dal 1994 (IV ginnasio) al 2003 (Laurea) nel settore della ricerca e tutela dei beni culturali. Quella che è diventata la mia professione. Sono d’accordo perchè durante quelle esperienze sono nate amicizie che, per fortuna, sono ancora fortemente vive. Sono d’accordo perchè, grazie a chi mi ha seguito (o istruito, o – tiè! – addirittura “comandato”) in quegli anni ho avuto gli strumenti per capire che quella sarebbe stata la strada giusta per me. E per capire, ancor prima di cominciare, quali sarebbero state (almeno in parte) le difficoltà che avrei incontrato. E i sacrifici da fare. E a quell’età – anzi, a quelle età – non è poco.

– Sono d’accordo perchè, non avessi fatto quell’esperienza, probabilmente non esisterebbe la mia – piccola, ok – azienda. E il lavoro che fa. E quello che dà. E anche questo, però, non è poco.

– Sono d’accordo perchè – se potessi – è proprio ai ragazzi delle superiori (con i loro modi e le loro visioni critiche, disincantate, contestatrici) che mi piacerebbe poter insegnare quel poco che ho imparato e quel poco che so fare.

Ah, già. Poi sono d’accordo perchè la frase “i giovani d’estate devono lavorare gratis” il (per carità, discutibilissimo) ministro non l’ha detta (qui). Ma, si sa, leggere un articolo è faticoso. meglio fermarsi al titolo. O farselo spiegare dal blog ufficiale. E questo vale per tutti, anche per una cantante.

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