La scorsa settimana a Roma, alla Magliana, un pregiudicato è stato ucciso davanti all’asilo nido dove aveva appena lasciato le due figlie [QUI]. Un killer in scooter con il volto coperto dal casco integrale, quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo: un’esecuzione. Pochi giorni dopo, alcune testimonianze hanno portato le indagini a concentrarsi su un nome legato alla Banda della Magliana.
Anche se l’indagato nega qualsiasi coinvolgimento con l’omicidio, solo il rimando al Negro, a Renatino e a Crispino, mette i brividi. Riporta a un ventennio di storie criminali che probabilmente con troppa facilità sono state consegnate alla storia” e alla “letteratura”. Nonostante Antonio Mancini, Nino l’accattone, componente del primo nucleo della banda e adesso collaboratore di giustizia (e quindi – nel “settore” – infame), sostenga da tempo che l’associazione criminale sia ancora in attività [QUI].
Quindi, non un episodio di violenza – seppur efferato – derubricabile in qualche modo a triste (tristissima) statistica, ma un atto criminale allarmante, a cui rispondere col “pugno di ferro”. Eppure ieri, in strada, nel cuore della Magliana, non c’era il Ministro degli Interni, né il Guardasigilli. Il primo probabilmente troppo impegnato a cercare un travestimento da artificiere da sfoggiare, “entro 48 ore”, davanti alla pizzeria Sorbillo di Napoli. Il secondo a pubblicare video acchiappa-like di un terrorista in manette, senza curarsi di mettere a repentaglio l’identità di un agente sotto copertura.
Ieri, quando alle 18.30 persone comuni, associazioni e comitati di quartiere si sono riuniti in Piazza De André (che poi, stando ai tweet, almeno la location avrebbe dovuto incontrare i gusti di Salvini), al loro fianco non c’era nessun teorico dell’è finita la pacchia. Nessun “capitano”. Nessuna ruspa in azione. Il nemico, evidentemente, in questo caso non garantiva audience, like e follower. O forse, semplicemente, stavolta era vero.
Situato nel cuore di Villa Borghese, nell’edificio descritto nella seconda metà del Seicento dai guardarobbe della famiglia Borghese come “Gallinaro” (il casale dove venivano allevati struzzi, pavoni e anatre per le battute di caccia) e attualmente conosciuto – per la caratteristica cinta turrita di stampo medievale realizzata alla fine del Settecento dall’architetto Antonio Asprucci – come “Fortezzuola”, il Museo Pietro Canonica è un piccolo gioiello dei Musei in Comune.
Scultore di fama internazionale, grande appassionato di musica e compositore, Canonica nasce a Moncalieri nel 1869 e si forma nella Torino stimolante di fine Ottocento, per poi soggiornare a lungo presso le corti d’Europa (le aristocrazie infatti gli commissionano ritratti e monumenti celebrativi) e infine trasferirsi a Roma (dove morirà nel 1959) ottenendo in concessione dal Comune l’edificio che oggi ospita il museo per farne la propria abitazione-studio.
E’ proprio questa la principale caratteristica dello spazio museale, fondere l’universo più intimo dell’artista con le “ovattate” atmosfere aristocratiche di fine Ottocento e gli sconvolgimenti (politici e sociali) del primo Novecento. L’appartamento privato di Pietro Canonica, con gli arredi pregiati e i quadri dell’ottocento piemontese; lo studio, con le testimonianze della sua tecnica e della sua ispirazione; le cinque sale espositive, in cui, tra sculture, busti, statue e calchi è possibile ricostruire la storia e l’evoluzione della sua produzione artistica.
Tra le opere esposte spiccano in particolare i due modelli originali dei monumenti al Granduca Nicola Nicolajevich e allo Zar Alessandro II (entrambi gli originali distrutti nel corso della Rivoluzione), i modelli delle statua equestri dedicate all’eroe dell’America Latina Simon Bolivar e al Re dell’Iraq Faysal I (anche l’originale di quest’ultima è andato completamente distrutto, nella rivoluzione del 1958), i basamenti dei monumenti a Kemal Ataturk, inaugurato a Smirne nel 1932, e alla Repubblica Turca.
Modello della statua equestre di Faysal I, re dell’Iraq.
Scoperto e scavato negli anni 20 del secolo scorso durante i lavori per la costruzione di una palazzina tra Via Livenza e Via Po (nei pressi della via Salaria), l’Ipogeo di Via Livenza rappresenta – tra i monumenti sotterranei di Roma – un vero e proprio enigma.
L’edificio, sotterraneo anche in epoca antica (vi si accedeva infatti tramite una scala oggi parzialmente ricostruita con frammenti originali), si trovava nel cuore dell’antico sepolcreto Salario, a circa 250 metri dalle Mura Aureliane e a pochissima distanza dall’antica via Salaria vetus.
Della struttura originaria, caratterizzata dalla pianta allungata con il lato corto meridionale absidato, attualmente si conserva solo una piccola porzione del lato settentrionale, articolato in tre archi adiacenti. Sotto quello centrale e’ situata una profonda vasca rettangolare, foderata in cocciopesto, con il fondo in bipedali.
Tramite un tubo in terracotta l’acqua scendeva a cascatella nella vasca, e veniva fatta defluire attraverso un’apertura a saracinesca collegata ad una conduttura di drenaggio scavata nel tufo.
Il ritrovamento, sul pavimento della vasca, di bolli con il monogramma di Costantino ha consentito di datare la struttura alla seconda metà del IV secolo d.C.
Il piccolo ambiente si caratterizza per le affascinanti decorazioni che ancora rivestono le pareti. Sullo zoccolo alla sinistra dell’arco centrale è dipinta una curiosa scena marina di eroti. Due amorini sono raffigurati nell’atto di pensare con la lenza, uno in piedi e l’altro accovacciato su uno scoglio. Un putto nuota tirando a sé un cigno che apre le ali ed altri tre sono rappresentati su una barca, intenti a gettare in acqua una rete da pesca.
Sopra questa pittura è visibile la porzione rimanente di un meraviglioso mosaico policromo. Due personaggi (di cui, sfortunatamente, sono visibili solo le gambe) sono rappresentati di fronte ad una sorgente d’acqua che sgorga da una rupe. Il primo è inginocchiato, nell’atto di bere, il secondo è in piedi, rivolto verso sinistra. Joseph Wilpert, archeologo ed iconografo tedesco, riconobbe in questo frammento la raffigurazione del “miracolo della fonte”: Pietro fa scaturire dalla rupe l’acqua con cui battezzerà, e disseterà, i centurioni Processo e Martiniano.
Al centro si apre una nicchia decorata a finte lastre di marmo con, nel catino, la rappresentazione di colombe che si dissetano ad una fontana dalla forma di kantharos.
Ai lati della nicchia sono dipinte due figure femminili. A sinistra Diana è nell’atto di estrarre una freccia dalla sua faretra mentre due cervi iniziano la fuga. A destra una ninfa accarezza delicatamente il muso di un capriolo.
La funzione originaria dell’ambiente è tuttora avvolta da mistero. Su di essa, infatti, gli studiosi hanno formulato le ipotesi più varie.
Luogo di culto della setta misterica dei Baptai, devoti alla dea della Tracia Kotys, che usavano tuffarsi in acqua gelida per provocare uno stato di squilibrio nervoso, di estasi. Tempio legato al culto delle acque. Ninfeo con bagno, costruito negli ambienti interrati di una dimora privata per sfruttare – e allo stesso tempo tenere sotto controllo – una sorgente d’acqua. Oppure un antico battistero, per la particolare pianta “basilicale” della struttura e per la possibile interpretazione in chiave simbolica e biblica delle raffinate decorazioni. Sempre il Wilpert, infatti, propose un’interpretazione in senso simbolico anche delle pitture. Diana rappresenterebbe il paganesimo (che minaccia i fedeli) mentre la Ninfa, che attira le anime alla conversione, il Cristianesimo. Lo studioso si spinse così a vedere nell’ipogeo i resti dell’antichissimo battistero citato nella “Passio Marcelli”: ad nynphas Beati Petri, ubi Petrus Baptizavit.
Nonostante la sua destinazione d’uso sia ancora dibattuta, il piccolo Ipogeo di via Livenza suscita tra i visitatori che riescono ad accedervi (è attualmente aperto dal Comune di Roma solo su prenotazione per gruppi accompagnati INFO QUI) grande suggestione e curiosità.
Il 21 dicembre con un emendamento al bilancio, il Comune di Roma ha stabilito che, dalla primavera del 2018, i residenti potranno usufruire di un ingresso illimitato in tutti i siti del sistema “Musei in Comune” (incluse le mostre in corso di svolgimento) acquistando una tessera annuale al costo di 5€.
I musei interessati dall’iniziativa sono i Musei Capitolini, la Centrale Montemartini, l Museo dell’Ara Pacis, il Museo dei Fori Imperiali – Mercati di Traiano, il Museo di Roma (Palazzo Braschi), il Museo di Roma in Trastevere, la Galleria d’Arte Moderna, i musei di Villa Torlonia, il Museo di Zoologia.
Oltre, naturalmente, a quelli già ad ingresso gratuito: Museo di Scultura antica Giovanni Barracco, la Villa di Massenzio, il Museo delle Mura, la casa-studio dello scultore Pietro Canonica, il Museo napoleonico, il Museo Carlo Bilotti, il Museo di Casal de’ Pazzi e il Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina.
Questo è il fatto. Nudo e crudo.
Potremmo discutere a lungo – e probabilmente senza venire a capo di nulla – sul concetto per cui la cultura (e con essa i servizi culturali) si debba pagare. Concetto che, in linea generale, condivido da tempi non sospetti sia idealmente che professionalmente. Ma che, in questi giorni, mi sembra essere tornato alla ribalta solo come momentaneo cavallo di battaglia dei detrattori della Giunta.
Oppure potremmo criticare il costo della card. 5€, in effetti, sono pochi. E vista la qualità dell’offerta probabilmente con un costo di 15/20€ la proposta avrebbe avuto ugualmente grande appeal. Ma di certo non sarebbero stati quei 10€ in più a persona a “fare cassa”.
In entrambi i casi, però, si rischierebbe di perdere di vista il “nocciolo” della questione. Credo infatti che l’iniziativa abbia molto poco a che vedere con la gestione e la riorganizzazione del patrimonio culturale e museale di Roma. E’, indiscutibilmente, un aiuto considerevole per chiunque voglia riappropriarsi dei luoghi che custodiscono la millenaria storia della città senza dover fare i conti con la “partita doppia” ogni volta. Perché, parliamoci chiaro, i musei sono di tutti, ma attualmente non sono per tutti. Qualche esempio? Per i residenti nel territorio di Roma Capitale, infatti, l’ingresso ai Mercati di Traiano, al Museo dell’Ara Pacis o ai Capitolini varia attualmente tra gli 8€ e i 9,50€. Una cifra che già esclude una fetta della società. A cavallo tra l’inverno 2017 e la primavera 2018, le mostre “Traiano. Costruire l’impero, creare l’Europa”, “Hokusai. Sulle orme del Maestro”, “Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento” allestite nei suddetti spazi hanno portato ad un sensibile aumento dei biglietti di ingresso, variabili tra i 13€ e i 16€. La card può quindi essere interpretata come un intervento “sociale”, una restituzione a tutti i romani della costante e completa fruibilità di spazi finora riservati ad una “elite”. E proprio questo rivela la sua natura politica, in aperta e dichiarata contrapposizione con le scelte contestualmente operate dal Governo e in particolare dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali come l’introduzione del ticket per l’ingresso al Pantheon e l’abolizione delle condizioni di riduzione per l’ingresso a musei e aree archeologiche statali (sostituite, ad onor del vero, dalla completa gratuità in occasione della prima domenica del mese).
Ma anche questa analisi è parziale.
Perché l’auspicato (e auspicabile) aumento della partecipazione alla vita culturale della città potrebbe, anzi dovrebbe, essere lo stimolo per lo sviluppo a cascata di altri consumi. Dalla partecipazione alle attività dei professionisti del settore abilitati (aggettivo non superfluo), all’acquisto di libri, al rinnovato interesse per il turismo culturale nelle altre zone della regione. Dirottando così, una cifra più o meno simile a quella attuale (non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di un bacino di pubblico – quello dei romani – importante sì, ma non infinito) verso altri soggetti dello stesso settore.
Insomma, sulla decisione possiamo continuare a discutere, e fino al 4 Marzo probabilmente sarà proprio così. Ma se per un lungo periodo è stata rinfacciata al Movimento 5 stelle, e in particolare alla giunta di Virginia Raggi, la mancanza di una visione di ampio respiro della città, della “comunità” (e, allo stesso tempo, “per” la città e “per” la comunità) non si può negare che questa delibera sia una prima risposta.
La notte tra il 18 e il 19 Luglio del 64 d.C., al tempo di Nerone, Roma fu distrutta da un incendio di proporzioni inaudite. In breve tempo le fiamme, sviluppatesi al Circo Massimo, nella zona tra Celio e Palatino, divennero un fronte di fuoco compatto e invalicabile, impossibile da domare, che devastò la città per dieci giorni. Il numero di morti, soprattutto nelle zone più popolari, imprecisato. I danni incalcolabili. Delle 14 regiones in cui Augusto aveva diviso l’Urbe, 3 furono completamente rase al suolo, 7 ridotte in rovina.
Dovendo pensare a un “fotogramma” della storia antica, a molti probabilmente verrebbe in mente proprio l’immagine dell’imperatore che contempla Roma bruciare accompagnandosi con la lira.
Locandina del film “Quo vadis?”, 1913, diretto da Enrico Guazzoni e tratto dall’omonimo romanzo di Henryk Sienkiewicz.
Ma è un’immagine distorta. Da alcuni resoconti degli storici antichi (Disgustato dalla bruttezza dei vecchi edifici e dalle strade tutte strettoie e curve, dette fuoco alla città, riporta Svetonio; Nerone sentì il desiderio di realizzare quello che aveva sempre sperato, cioè mandare in rovina la città. Perciò incaricò segretamente alcuni uomini che, comportandosi come fossero ubriachi, appiccarono focolai di incendio in più parti di Roma, scrive Cassio Dione); dalle ipotesi avanzate da qualche studioso moderno (lo storico russo Sergej Kovaliov, ad esempio, spiega l’incendio con il fatto che l’imperatore aveva in precedenza comprato a basso costo la vastissima zona tra Esquilino e Palatino sulla quale sarà eretta poi la Domus Aurea); e – perché no? – dalle re-interpretazioni cinematografiche (come dimenticare il primo Kolossal, Quo Vadis?, del 1913, o l’interpretazione di Peter Ustinov nel rifacimento del 1951).
Perché è proprio a Nerone, invece, che si devono quei provvedimenti per proteggere la città dal ripetersi di un evento così tragico. Tacito (Annales, XV, 43) descrive nei particolari i criteri urbanistici della Nova urbs voluta dall’imperatore: strade più ampie, blocchi di case ben allineate e dall’altezza limitata, con cortili e portici, realizzate con pietre refrattarie al fuoco e, soprattutto, senza muri divisori comuni. Le zone della città che non erano occupate dal palazzo imperiale furono riedificate: non già come dopo l’incendio gallico qua e là a casaccio, senza seguire un piano, ma con blocchi di case ben allineati, con più ampio respiro di strade; le costruzioni non dovevano superare una certa altezza, vi era dello spazio adibito ai cortili e a protezione delle facciate venivano aggiunti dei portici. (…) Volle che i nuovi edifici fossero saldati in talune parti non con travi ma con pietra di Gabi o di Albano, refrattarie al fuoco. (…) Volle infine che non vi fossero muri divisori comuni tra casa e casa ma che ogni edificio disponesse di muri propri.
A nulla valse, però, la generosità nel soccorrere e accogliere gli sfollati, per i quali Nerone aprì il Campo Marzio e i giardini imperiali, fece costruire ricoveri provvisori e organizzò distribuzioni di generi alimentari. A nulla valsero i riti espiatori verso gli dei. Niente riuscì a cambiare – né, in molti casi, cambia oggi – l’infame opinione che l’incendio fosse stato comandato.
Un breve frammento del mio racconto sul “grande incendio di Roma del 64 d.C. e sulla Nova Urbs neroniana, nel corso della visita guidata al Vicus Caprarius (Roma) realizzata il 15 ottobre 2017 in occasione della presentazione del libro “A tavola con gli antichi romani” di Giorgio Franchetti.