Gli enigmi dell’Ipogeo di via Livenza.

Scoperto e scavato negli anni 20 del secolo scorso durante i lavori per la costruzione di una palazzina tra Via Livenza e Via Po (nei pressi della via Salaria), l’Ipogeo di Via Livenza rappresenta – tra i monumenti sotterranei di Roma – un vero e proprio enigma.

L’edificio, sotterraneo anche in epoca antica (vi si accedeva infatti tramite una scala oggi parzialmente ricostruita con frammenti originali), si trovava nel cuore dell’antico sepolcreto Salario, a circa 250 metri dalle Mura Aureliane e a pochissima distanza dall’antica via Salaria vetus.

Della struttura originaria, caratterizzata dalla pianta allungata con il lato corto meridionale absidato, attualmente si conserva solo una piccola porzione del lato settentrionale, articolato in tre archi adiacenti. Sotto quello centrale e’ situata una profonda vasca rettangolare, foderata in cocciopesto, con il fondo in bipedali.

Tramite un tubo in terracotta l’acqua scendeva a cascatella nella vasca, e veniva fatta defluire attraverso un’apertura a saracinesca collegata ad una conduttura di drenaggio scavata nel tufo.

Il ritrovamento, sul pavimento della vasca, di bolli con il monogramma di Costantino ha consentito di datare la struttura alla seconda metà del IV secolo d.C.

Il piccolo ambiente si caratterizza per le affascinanti decorazioni che ancora rivestono le pareti. Sullo zoccolo alla sinistra dell’arco centrale è dipinta una curiosa scena marina di eroti. Due amorini sono raffigurati nell’atto di pensare con la lenza, uno in piedi e l’altro accovacciato su uno scoglio. Un putto nuota tirando a sé un cigno che apre le ali ed altri tre sono rappresentati su una barca, intenti a gettare in acqua una rete da pesca.

Sopra questa pittura è visibile la porzione rimanente di un meraviglioso mosaico policromo. Due personaggi (di cui, sfortunatamente, sono visibili solo le gambe) sono rappresentati di fronte ad una sorgente d’acqua che sgorga da una rupe. Il primo è inginocchiato, nell’atto di bere, il secondo è in piedi, rivolto verso sinistra. Joseph Wilpert, archeologo ed iconografo tedesco, riconobbe in questo frammento la raffigurazione del “miracolo della fonte”: Pietro fa scaturire dalla rupe l’acqua con cui battezzerà, e disseterà, i centurioni Processo e Martiniano.

Al centro si apre una nicchia decorata a finte lastre di marmo con, nel catino, la rappresentazione di colombe che si dissetano ad una fontana dalla forma di kantharos.

Ai lati della nicchia sono dipinte due figure femminili. A sinistra Diana è nell’atto di estrarre una freccia dalla sua faretra mentre due cervi iniziano la fuga. A destra una ninfa accarezza delicatamente il muso di un capriolo.

La funzione originaria dell’ambiente è tuttora avvolta da mistero. Su di essa, infatti, gli studiosi hanno formulato le ipotesi più varie.

Luogo di culto della setta misterica dei Baptai, devoti alla dea della Tracia Kotys, che usavano tuffarsi in acqua gelida per provocare uno stato di squilibrio nervoso, di estasi. Tempio legato al culto delle acque. Ninfeo con bagno, costruito negli ambienti interrati di una dimora privata per sfruttare – e allo stesso tempo tenere sotto controllo – una sorgente d’acqua. Oppure un antico battistero, per la particolare pianta “basilicale” della struttura e per la possibile interpretazione in chiave simbolica e biblica delle raffinate decorazioni. Sempre il Wilpert, infatti, propose un’interpretazione in senso simbolico anche delle pitture. Diana rappresenterebbe il paganesimo (che minaccia i fedeli) mentre la Ninfa, che attira le anime alla conversione, il Cristianesimo. Lo studioso si spinse così a vedere nell’ipogeo i resti dell’antichissimo battistero citato nella “Passio Marcelli”: ad nynphas Beati Petri, ubi Petrus Baptizavit.

Nonostante la sua destinazione d’uso sia ancora dibattuta, il piccolo Ipogeo di via Livenza suscita tra i visitatori che riescono ad accedervi (è attualmente aperto dal Comune di Roma solo su prenotazione per gruppi accompagnati INFO QUI) grande suggestione e curiosità.

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