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Un San Gennaro al contrario.

Il Vesuvio è il ricordo millenario della tragica distruzione di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis. Ed è l’immagine, ineludibile, del rischio futuro. Imprevedibile e incontrollabile. Sotto la cui ombra, nonostante tutto, scorrono le vite di quartieri, paesi, comunità. Si affannano le mamme, affaccendate con i bambini intorno. Sciamano gli studenti, con le cuffiette nelle orecchie e lo smartphone fisso davanti agli occhi. I pendolari  ripetono inesorabilmente il tragitto casa-lavoro-casa, accalcati nei vagoni precari della Circumvesuviana o chiusi in macchina, nel traffico della Statale 18. I nonni si muovono sicuri tra i banchi del mercato. Qualcuno non fa niente. Qualcuno fa, e non dovrebbe fare.

A quella sagoma minacciosa sopra la testa forse non pensa nessuno. Perché nessuno può chiedergli nulla. E’ un San Gennaro al contrario, il Vesuvio. Da cui nessuno può pretendere comprensione. A cui nessuno può implorare perdono. Ma davanti al quale chiunque non può che sentirsi piccolo, impotente. Uno qualunque. Uno dei tanti. E deve abbassare lo sguardo.

Anche se il fumo lo nasconde. Anche se è un boss.vesuvio incendio 2017

 

Un italiano, un arabo e un africano.

Napoli, più o meno le 22.30 di Venerdì sera. Sto tornando in albergo e ho bisogno di comprare una bottiglia d’acqua. Entro nel primo negozio che incontro. Uno di quelli che vende un po’ di tutto, aperto praticamente sempre. Un arabo, sonnecchia su una sedia fuori dall’ingresso. E già sarebbe da fotografare per l’espressione beata, appoggiato ad una pila di rotoli di carta igienica e carta assorbente (peraltro, grande offerta: 8 rotoli 1€!). Comunque, entro. Il tempo di fare un passo verso un indistinto mucchio di bottiglie, e da dietro lo scomparto della frutta sento delle urla. Ma proprio forti. E poi, un secondo dopo, ancora più forti, le risate di tre persone. Prendo l’acqua, m’affaccio. Un arabo, un africano, e un italiano. Continuano a ridere a crepapelle. Viene da ridere anche a me. L’arabo si avvicina alla cassa, “un’acqua? 70 centesimi”. E in napoletano mi fa “scusass’ capo, ma chisti duje song proprio sciemi”. Sorrido. Pago l’acqua. Esco. Loro ridono ancora.

Penso che potrebbe essere l’inizio di una bella storia: un italiano, un arabo e un africano ridono.

Napoli, Piazza della Sanità, "Luce" di Tono Cruz.
Napoli, Piazza della Sanità, “Luce” di Tono Cruz.

La pistola e gli occhi chiusi.

Ci vuole del tempo per metabolizzare la morte di un quattordicenne. E forse non basta (anzi no, non deve bastare) neanche tutto il tempo del mondo per metabolizzare che un quattordicenne possa essere ucciso da un carabiniere.

Però allo sgomento che ho provato di fronte a un fatto così enorme, alla sensazione del fiato che manca come dopo aver ricevuto un pugno nello stomaco, si è aggiunto un senso di rabbia verso una comunità che ai comportamenti “fuorilegge” sembra essersi arresa.

Una comunità che piange un ragazzo ucciso ma continua a chiudere gli occhi sui coetanei che non smettono di muoversi in tre sul motorino, senza casco. Perchè “a Napoli così è normale“.

Una comunità che chiude gli occhi sul fatto che un quattordicenne (non un uomo!) possa fare un giro in motorino di sera con due amici che sono, rispettivamente, un latitante e un pregiudicato. Perchè “ce ne sono tanti”.

Sia chiaro: non c’è dubbio che un quattordicenne ammazzato, per di più dallo Stato, annichilisca qualsiasi tentativo di “giustificazione” o “motivazione”. E non c’è dubbio che la giustizia debba essere rapida, e la condanna esemplare. Nonostante la divisa. Anzi, ancor di più per la divisa.

Ma non si può far finta di non vedere che Davide Bifolco è stato ammazzato anche da quel contesto, e da tutti quegli occhi chiusi.