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Avesta Harun, la guerriera dagli occhi verdi.

Libri, La guerriera dagli occhi verdi, Marco Rovelli, Giunti.

Filiz Saybak è nata nel 1982 a Mezri. E’ la più piccola della famiglia. Cresce coccolata da Tekin, il fratello prediletto, tra alberi di noce, pecore al pascolo, racconti e fiabe narrati dalle calde voci dei dengbej, balli spensierati per la festa del Newroz.

Anche Avesta è nata nel 1982 a Mezri. Anche lei è la più piccola della famiglia. Ha scelto il suo nome di battaglia in memoria di Harun, il fratello prediletto, ucciso in montagna dalle bombe e dai proiettili degli elicotteri turchi.

Filiz è diventata Avesta per continuare la lotta di Tekin, diventato, e morto, Harun.

Libri, La guerriera dagli occhi verdi, Marco Rovelli, Giunti.
Marco Rovelli, La guerriera dagli occhi verdi, Giunti.

Ma Filiz era già Avesta. Era sempre stata Avesta. Nell’incessante ricerca d’emancipazione, nella orgogliosa resistenza alle imposizioni e alle sanguinarie repressioni del governo turco, nel continuo desiderio di conoscenza e di approfondimento, nell’intensa capacità di mettersi al servizio della comunità, di tradurre il personale in collettivo. Compagna, capace di trasformare in scuola una tenda rammendata a fatica. Di diventare Maestra per i bambini tra gli alberi di Behre, nel campo profughi di Ninive o sotto il sole ardente del deserto iracheno, affinché la comunità non debba mai rassegnarsi “al barbaro che è in noi”.

E Avesta è rimasta sempre Filiz. Trasformando il proprio desiderio di “non lasciare a terra l’arma di Harun” nella difesa di un ideale di libertà e democrazia dalla minaccia di un nemico diverso, per una volta condiviso con l’occidente. Comandante, in grado di combattere gli spietati tagliagole di un califfato teocratico in nome della convivenza pacifica di etnie e religioni diverse. Ma soprattutto donna, determinata a respingere, con i libri e con il fucile, quel “dio” maschio e crudele deciso a rendere ogni donna un fantasma.

Marco Rovelli racconta la storia della guerriera dagli occhi verdi sdoppiando il piano della narrazione. Alternando gli episodi dell’infanzia e dell’adolescenza di Filiz, legati alla formazione della sua coscienza politica, alle vicende della partigiana Avesta. Il libro scorre agile come un romanzo, ma le testimonianze dei parenti di Filiz e dei guerriglieri che hanno combattuto al fianco di Avesta (raccolte direttamente dall’autore nel Kurdistan turco e iracheno) lo rendono una preziosa non-fiction novel, in grado di indicare il cuore della lotta di liberazione del popolo curdo: un paese non può essere libero, un popolo non può sentirsi libero, se le donne non lo sono. Questo è il principio che ha animato la breve vita di una giovane guerriera dagli occhi verdi.

Se sai contare

le foglie di questa foresta

se sai contare

tutti i pesci, grandi e piccoli,

del fiume che scorre qui davanti,

se sai contare

gli uccelli al tempo della migrazione

dal nord al sud 

e dal sud al nord

allora scommetto che anch’io riuscirò a contare

i martiri della mia terra,

il Kurdistan.

Il senso della cultura.

Raggiungeva l’osteria, semideserta nel primo pomeriggio, e comandava un boccale. Ma ben presto scoperse che il tempo è il nemico del vino. Si può cercare l’ubriachezza quando non si è soli o, comunque, qualcosa ci attende e la sera è un’insolita sera. Ma quando le ore inalterate e uguali ci guardano bere e continuano indifferenti e l’ebbrezza dilegua con la luce e un altro tempo rimane da trascorrere; quando nulla accompagna l’ebbrezza né le dà un significato allora il vino è troppo assurdo. [Cesare Pavese, Il Carcere, 1939]

Ci sono uomini di stato che vigilano sugli uomini come fanno i poeti. Assorbendone il disagio, comprendendo le ragioni di un vino (o quello che è) diventato “troppo assurdo”. Roberto Mancini era il poliziotto che, durante il servizio alla Polfer alla stazione Termini, parlava con tutti: tossici, barboni, ubriaconi. Rollava una sigaretta anche per loro e ascoltava le loro storie.

Leggevo questo passaggio del libro che racconta la sua storia, Io, morto per dovere (Luca Ferrari e Nello Trocchia con Monica Mancini, ed. Chiarelettere) – Roberto Mancini era anche il poliziotto che ha indagato indagato sulla Terra dei Fuochi, che ne ha respirato i miasmi tossici fino ad ammalarsi, e morire, di tumore – mentre nel laido salotto di “Porta a Porta” il figlio di Riina ripeteva (tra l’altro) che lui, al contrario dei suoi compagni, a scuola non ci è mai andato. E non si è mai domandato perchè.

Un uomo dello Stato capace di farsi lui stesso Stato recitando a memoria Pavese. E l’Antistato che scaccia l’istruzione, la rifugge senza mai sentirne il bisogno. Qual’è, se non questo, il senso della scuola, della cultura, delle arti?

Heval Marcello, il combattente.

Karim Franceschi è un compagno italiano, nato in Marocco e cresciuto a Senigallia. Per tre mesi ha combattuto in prima linea, al fianco del popolo curdo, per difendere dalla barbarie del Califfato Islamico l’ideale di confederalismo democratico rappresentato dalla Regione Autonoma di Rojava. La cui sopravvivenza, ed il suo auspicabile sviluppo come modello di democrazia pura, laboratorio di egualitarismo basato sul rispetto delle minoranze etniche e religiose, sul diritto allo studio, sull’accesso alla cultura, sulla libertà religiosa (che non ha spazio nella vita pubblica), sulla parità fra uomini e donne, sul rispetto dell’ambiente, rappresenta di per sé una sconfitta per Daesh.

Per questo, dopo aver partecipato al progetto di solidarietà dei centri sociali “Rojava calling” in un campo profughi a Soruc aver conosciuto direttamente lo strazio dei bambini soldato, Franceschi ha deciso di andare a combattere con la milizia volontaria dell’Ypg (Unità di protezione del popolo) portando a compimento la liberazione di Kobane. Rispondendo colpo su colpo agli attacchi ed agli assedi dell’esercito del Califfato. Nome di battaglia, Marcello.

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Karim Franceschi, Il combattente, BUR Rizzoli.

Il racconto, crudo ma dai toni mai “esageratamente” epici,  realizzato grazie al giornalista di “Repubblica” Fabio Tonacci, racconta la guerra e la fiera resistenza del popolo curdo, e testimonia direttamente le colpe della comunità internazionale, che per troppo tempo ha sottovalutato quello che accadeva a Kobane, e che continua ad ignorare (o quantomeno a sottovalutare) come i miliziani di Daesh si muovano liberamente a cavallo della frontiera con la Turchia. Ma soprattutto si interroga sul senso dell’essere partigiano, sul sentirsi “heval”, compagno, di qualcosa e qualcuno, anche a chilometri di distanza da “casa”. Heval Marcello. Heval è colui che lotta per difendere la propria terra, anche se rimane nelle retrovie per aiutare. Un heval ti copre le spalle, con il fucile in mano. Un heval ha rispetto di te, e mette i tuoi bisogni davanti ai suoi. Heval è chi condivide il tuo stesso destino, e si riconosce in te. Heval è una buona ragione per combattere.

Si sono presentati come rappresentanti dell’Islam,

hanno massacrato la gente in nome della religione,

hanno ucciso ovunque. Questa è la verità.

hanno diviso la gente,

e noi di Kobane ci siamo ribellati.

Tu che sei fratello di Kobane, vieni, per gli occhi e per la testa, per vedere e per capire.

Ora tutti sanno che la terra di Kobane non può essere calpestata.

Grazie al popolo.

Farhan, combattente.

Lui, l’amore, la musica, gli stronzi e Dio.

“Io, l’amore, la musica, gli stronzi e Dio”. Dal titolo potrebbe sembrare solo la biografia (sopra le righe) del giudice (sopra le righe) di X-Factor, un’operazione commerciale ben orchestrata. Il libro, invece, è interessante e coinvolgente.

Marco Castoldi, Il libro di Morgan, Einaudi.
Marco Castoldi, Il libro di Morgan, Einaudi.

Nonostante la prosa sia – a tratti – eccessivamente verbosa (ma d’altronde se impiega venti minuti a presentare una canzone in un talent..), è una lettura agile. Risulta, alla fine, il tomentato pamphlet di un uomo di cultura dalla sensibilità fuori dal comune. Di un artista. E come molte espressioni artistiche è, allo stesso tempo, un libro confuso e lineare. E mai banale. Né nelle riflessioni filosofiche (da intendersi proprio come dei veri e propri abstract di storia della filosofia), né negli spunti di critica e autocritica, né nei passaggi più pungenti e ironici.

E’ una lettura utile a confermare che le apparenze ingannano.Un libro pieno zeppo di De Andrè. Di Battiato. Di Pavese. Di Beatles e di Wagner. Fatto di musica classica, e ricoperto di Duran Duran, come l’autore. Che ha sicuramente scritto per se stesso. Ma anche per me.

La frustrazione. La frustrazione che provi quando hai un’idea e non hai le parole. La frustrazione di quando hai una parola nella testa e non sai come dirla. Sei a Mosca e non sai il russo. Quello è uno spaesamento che è impossibile da raccontare e mi fa paura.

La tv e la vergogna. Faccio la puntata, poi mi chiudo in casa per tre giorni e spengo il telefono. Dormo, soprattutto. Nel resto del tempo leggo o suono. Non mi rivedo mai. Al quarto giorno c’è sempre qualcuno che mi chiede dov’ero scomparso. “Mi sono vergognato” rispondo. Ed è la verità.

La Lega. Come al solito, il problema è che la Lega Lombarda, proprio perché soffre della propria totale assenza di riferimenti culturali, ogni volta che c’è qualcuno che apre bocca nella propria lingua tradizionale, se ne appropria. Siamo di fronte a gente gnucca come il marmo, che vive nel bosco. L’hanno fatto con la mitologia celtica, trasformandola senza capirla in una specie di gioco di ruolo, volete che non lo facciano con un cantante di cui riescono a comprendere almeno i testi [Davide Van De Sfroos ndr]? Infatti chi ha mai pensato di proporre un film di Kieslowsky a Calderoli? A Calderoli al massimo gli propongo Shining perché è uguale a Jack Nicholson quando va fuori di testa. “Wendyyy..” te lo vedi proprio Calderoli? E’ uguale.

L’Italia. Wagner trova un accordo che colloca nella prima fase del Tristano e Isotta, che in seguito sarà definito Tristan chord. Misterioso, complesso, dirompente. Inesistente prima. Ancora oggi indecifrato. Inventa il Novecento. Mentre Wagner è in Germania, cosa sta succedendo in Italia? C’è Giuseppe Verdi. Noi abbiamo sempre il nostro Gianni Morandi di turno. Wagner che pensa di andare al di là del mondo tonale, e noi Gianni Morandi che scrive: “Me lo prendi papà?” Sempre così. Noi Pausini? Loro Bjork.

Gli artisti. I veri artisti sono belli. Sono le persone più belle che ci siano, però sono pieni di casini. (…)Ho sempre avuto una grande capacità di comunicare senza le parole, anche grazie al fatto di aver avuto come compagno di banco alle elementari un bambino che non solo era sordomuto, ma anche distrofico. (…) Io però con lui ci parlavo, imitavo i suoi versi. Proprio la mia lucidità mi permetteva di stabilire questa relazione con lui. Oggi quando mi capita di incontrare persone “strane”, penso sempre al mio compagno di classe. Provo compassione per loro, ma soprattutto spero che loro provino compassione per me, in un loop di identificazione.

Fuga dal Campo 14, l’agghiacciante testimonianza sui lager della Corea del Nord.

Fuga dal Campo 14 non è una semplice biografia. E’ una riflessione e, al tempo stesso, un atto d’accusa duro e agghiacciante sulla dittatura in Corea del Nord. E’ la storia di Shin Dong-hyuk nato e cresciuto nel “Campo 14”, uno di quei campi di internamento e “rieducazione” su cui solo oggi ha iniziato ad interrogarsi una commissione delle Nazioni Unite.

Oggi ha 32 anni, e da quel lager è riuscito a fuggire 10 anni fa calpestando, nel vero senso della parola, il corpo di un compagno fulminato dall’alta tensione della recinzione.

Blaine Harden, Fuga dal Campo 14, Codice.
Blaine Harden, Fuga dal Campo 14, Codice.

Dopo la fuga in Cina ed una prima assistenza ricevuta in Corea del Sud ha iniziato un lunghissimo (e durissimo) percorso di riadattamento alla normalità. Anzi, a quella che noi consideriamo la normalità. Perché Shin è cresciuto senza conoscere nulla del mondo, senza sapere che la Terra fosse tonda. Senza aver mai ascoltato una persona cantare. Senza sapere nulla che non fosse la propaganda del Partito del Lavoro. “Pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello dentro”. Ma se le lacune di conoscenza possono essere colmate grazie ad una curiosità vivace e una grande determinazione, la pelle martoriata dalle cicatrici lasciate delle agghiaccianti torture subite renderà infinito il percorso di recupero, che Shin con coraggio condivide con Organizzazioni ed Associazioni che si occupano di diritti umani per le quali gira il mondo per raccontare la sua storia, testimone vivente degli abomini messi in atto dal 1948 ad oggi, dalle dittature di Kim Il Sung, Kim Jong-il e Kim Jong-un.

Lavorare fino allo sfinimento, tradire i suoi familiari, fare la spia, chinare lo sguardo e sopportare gli abusi delle guardie erano i suoi unici doveri per espiare colpe che non poteva e non doveva nemmeno conoscere. Il crimine che Shin “aveva commesso” era quello di avere uno zio fuggito, negli anni Cinquanta, in Corea del Sud. In Corea del Nord, infatti, è legale incriminare i cittadini in base ai legami di sangue e di parentela grazie ad una legge istituita nel 1972 dal “Grande Leader” Kim Il Sung che recita: “il seme dei nemici di classe deve essere estirpato attraverso tre generazioni”.

Il giornalista Blaine Harden ha messo ordine nei ricordi e nei racconti di Shin senza omettere i particolari più spaventosi, senza coprire – per inutili pietismi – le azioni più aberranti che lo stesso Shin ha dovuto commettere per sopravvivere, e senza mai smettere di ricordare che, in questo stesso momento, altri prigionieri le staranno commettendo. Perché anche l’orrore, non solo la pietà, può contribuire a scuotere l’opinione pubblica da quell’indifferenza che finora è stata la più preziosa alleata della dinastia dei Kim.

Illuminante, a questo proposito, un passo dell’Economist: Forse la portata delle atrocità è tale da anestetizzare l’indignazione. E’ molto più facile ridicolizzare il regime e le pazzie del suo leader piuttosto che affrontare realmente la sofferenza che quel regime infligge alla popolazione. Eppure sappiamo di omicidi, schiavitù, spostamenti forzati di popolazione, torture, stupri: la Corea del Nord commette praticamente ogni atrocità che rientri nella categoria “crimini contro l’umanità”.

Shin, però, continua a parlare e a mostrare, senza pudore, la sua schiena martoriata dalle ustioni e il basso ventre mutilato. Le caviglie deformate dai ceppi per tenerlo appeso a testa in giù durante l’isolamento. Le braccia piegate ad arco per i lavori forzati. Il dito medio della mano destra mozzato come punizione per avere fatto cadere una macchina da cucire. E non smetterà di farlo fino a quando i gulag della Corea del Nord non saranno smantellati e i prigionieri liberati.