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La linea verde. Giallo a Gerusalemme.

La linea verde non è un libro sul conflitto israelo-palestinese. E’ un libro su quello che c’è in mezzo. Sull’umanità che il conflitto infinito ha asfissiato. E sulla disumanità che di questo stesso conflitto infinito si nutre.

Francesco Diodati, La linea verde, Feltrinelli.
Francesco Diodati, La linea verde, Feltrinelli.

I palestinesi, da una parte. E gli israeliani, dall’altra. Divisi – nei disegni del primo ministro Eleazar Rot, da un muro che protegga Israele dagli attentati. Ma che sia, in realtà, un modo per perseguire il “sogno” del Grande Israele. Che non rispettando “la linea verde” del confine tra Israele e Cisgiordania, e addentrandosi per chilometri nel territorio palestinese includendo la colonia di Ariel, Nablus fino agli insediamenti di Ma’ aleh Adumin, tagli a fette la Cisgiordania riducendola in pratica a cinque o sei enclave isolate. In questo modo lo Stato Palestinese avrebbe serie difficoltà a sopravvivere, privo di confini certi e contiguità territoriale. Un muro che, quindi, nasca per proteggere, anzi – ancor di più – per garantire, quel sistema di collusioni con cui la destra sionista e Hamas si oppongono ad ogni riavvicinamento, ad ogni tentativo di accordo tra israeliani e palestinesi, anche con gli atti più efferati. Orrori su cui l’Autore non sorvola. Di cui non nasconde gli aspetti più atroci. Ma che inserisce nel racconto con delicatezza rara, senza partigianerie, con un trasporto semplice e commovente degno dell’intensità lirica dell’episodio di Cecilia di manzoniana memoria. Fu allora che la vide: una giovane donna era china sul corpo di una bimba di sette, otto anni. Sembrava inspiegabilmente intatta. Le accarezzava il volto di un bianco marmoreo su cui erano spalancati due grandi occhi azzurri fissi nel nulla. le mancava il braccio sinistro. Al suo posto aveva accostato un arto palesemente più lungo e con voce tenera e rassicurante le ripeteva: “Stai tranquilla piccola mia, ora arrivano e te lo rimettono a posto. Stai tranquilla, non ti faranno male, ci sono io con te”.

Ecco, La linea verde è un libro al tempo stesso duro e delicato. Esattamente come quella terra, bellissima e maledetta, di cui parla.

Oh, per inciso. La linea verde sarebbe anche un giallo. A metà fra il thriller e la spy story. E forse proprio “il genere” scelto da Francesco Diodati (inciso nell’inciso, Ufficiale Superiore dell’Esercito Italiano) finisce per essere l’unico anello debole del libro. Ma davvero, non è importante.

Make hummus not walls.

Mentre Gerusalemme e i territori palestinesi sono teatro di scontri e rappresaglie, Kobi Tzafrir, proprietario dell’Hummus Bar di Kfar Vitkin (città costiera a nord di Tel Aviv), ha deciso di offrire uno sconto del 50% ad ebrei ed arabi che pranzano allo stesso tavolo. Ha scritto sulla pagina Facebook: Avete paura degli arabi? Avete paura degli ebrei? Da noi non ci sono arabi, e nemmeno ebrei. Da noi ci sono solo persone e un hummus eccellente. Marketing? Certo. Ma anche chissenefrega. Soprattutto perchè l’idea ha contribuito, rimbalzando di social in social, ad accendere un po’ di luce su quei messaggi di riconciliazione e su quegli inviti alla condivisione che, purtroppo, risultano ancora più isolati. Rinchiusi anche loro (o forse soprattutto loro) da un muro di cemento, metallo e filo spinato.

Quindi:

make hummus not walls

Il Corriere della Sera ha inserito questa notizia (“piccola”, è evidente, ma non insignificante) tra quelle di “cucina” (qui). Tanto per dimostrare ancora, se mai ce ne fosse bisogno, quanta attenzione presti la stampa italiana alle voci israeliane fuori dal coro. O fuori dal muro.

In viaggio, Gerusalemme e Palestina #1.

Le mura parlano e raccontano storie. E’ probabilmente la considerazione più banale (perlomeno tra le più banali) che storici o archeologi possano fare. In alcuni casi, poi, non raccontano solo storie, ma raccontano la Storia. E’ così per quelle imponenti che cingono la città vecchia di Gerusalemme, e per i segni lasciati dalla guerra di indipendenza sulla Porta di Sion. Per le pietre dell’antica Gerico nel Tell es-Sultan e per quelle dell’inespugnabile fortezza di Masada. Parlano di Dio i blocchi di pietra bianca del muro del pianto, i marmi della moschea El-Aqsa, le maioliche della Cupola della Roccia e il travertino di Betlemme della Basilica della Natività. Parlano di una strage i resti romani del Palazzo di Erode. Per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina non si può non lasciare la parola alle mura.

Per raccontare il mio viaggio a Gerusalemme e in Palestina, quindi, non posso non cominciare da un muro.

Betlemme, Bansky

Da questo mostro di cemento armato, filo spinato e militari. Alto fino a nove metri (nove metri, 2 volte il muro di berlino) con terminal e porte di sicurezza (i “check-point” spacciati per “controlli di sicurezza” ma utilizzati come una vera e propria frontiera) che immettono nella città da tutti i punti cardinali.

Un muro che accerchia Betlemme e la divide da Gerusalemme. Che divide, quindi, i luoghi che il cristianesimo venera come quelli della natività di Gesù da quelli della morte e della resurrezione. Che divide “chirurgicamente” due città così indissolubilmente legate da essere – per credenti, atei, religiosi o laici – una l’imprescindibile appendice dell’altra.

Betlemme, il muro.

Un muro che nel troppo superficiale immaginario comune separa gli israeliani dai palestinesi. Ma che, in realtà, separa quartieri e città. Palestinesi da palestinesi. Che smembra famiglie, divise – in tantissimi casi – dal colore della Hawiya, la carta d’identità. Verde quella di chi risiede nei Territori occupati; Blu quella di chi risiede a Gerusalemme e che, pur non avendo passaporto, può frequentare scuole, ospedali, servizi sociali. Marcare differenze nelle differenze, un metodo vecchio come il mondo. Divide et Impera, d’altronde.

Un muro, le cui porte dettano i ritmi delle giornate. Come le preghiere. Che nel migliore dei casi, fin dall’alba costringe a file di ore per i controlli di sicurezza chi, permesso di lavoro e documento alla mano, da Betlemme si deve spostare a Gerusalemme. Oppure, in caso di chiusura – decisa in modo assolutamente unilaterale – a mettersi in cammino per ricominciare da capo e mettersi in fila in un altro varco, in un altro check point.

Rientro in Palestina

Allora, per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina, non posso non cominciare dalla guida Khalid. Che ci porta in giro nei dintorni di Betlemme e ci chiede se è bello dormire a Gerusalemme (distanza 8 – otto!! – chilometri). Lo chiede a noi. Perché a lui, palestinese cristiano, non è permesso. A Gerusalemme ci può andare solo a Natale o a Pasqua. E deve tornare la sera. Sempre che le porte del muro siano aperte. Sennò, cristiano o no, “sticazzi” del tuo pellegrinaggio.

Per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina, non posso non cominciare da Sofia che, il muro, vuol farcelo vedere per bene. Dall’alto. E quando si accorge che a mia moglie è venuta la pelle d’oca (perchè le donne sono più sensibili, io avevo il voltastomaco) le dice “pensa che questa è la mia vita”.

Per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina non posso non cominciare dalle opere di Bansky. Che non abbelliscono. Perché niente può abbellire una sfregio così grande. Ma di certo rendono chiaro, evidente, come questo muro sia uno strumento d’attacco. Non di difesa.

Betlemme, Bansky (Instagram)

Che poi, che per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina si dovesse cominciare da un muro, non era neanche difficile immaginarlo. Basta andare nella basilica di Santa Maria in Trastevere e guardare il mosaico dell’abside. “Hierusalem”, si legge, accanto alla rappresentazione di una città cinta da torri e da mura. Appunto.

Da una porta in queste mura escono sei agnelli. E dall’altra parte del mosaico, da Betlemme – appunto – ne escono altri sei. Tutti si spostano  simmetricamente e contemporaneamente verso il centro, verso l’Agnus Dei. Sempre che i check-point siano aperti.

gerusalemme (1)

betlemme (1)

mosaico absidale

Gerusalemme e Palestina, Luglio 2015.

Natale de guerra.

Sul comodino, da un po’ di tempo, ho una raccolta di poesie e sonetti di Trilussa.

Questa si intitola Natale de Guerra. E sì, certo, fine Luglio non è periodo da “poesie di Natale”. Però mi ha colpito perchè è stata composta a Roma nel 1916, pensando alle trincee della Grande Guerra, ma a pensarci bene avrebbe potuto essere scritta a Gaza, nel 2014.

Ammalappena che s’è fatto giorno
la prima luce è entrata ne la stalla
e er Bambinello s’è guardato intorno.
– Che freddo, mamma mia! Chi m’aripara?
Che freddo, mamma mia! Chi m’ariscalla?
– Fijo, la legna è diventata rara
e costa troppo cara pè compralla…
– E l’asinello mio dov’è finito?
– Trasporta la mitraja
sur campo de battaja: è requisito.
– Er bove? – Pure quello…
fu mannato ar macello.
– Ma li Re Maggi arriveno? – E’ impossibbile
perchè nun c’è la stella che li guida;
la stella nun vò uscì: poco se fida
pè paura de quarche diriggibbile…-

Er Bambinello ha chiesto: – Indove stanno
tutti li campagnoli che l’antr’anno
portaveno la robba ne la grotta?
Nun c’è neppuro un sacco de polenta,
nemmanco una frocella de ricotta…
– Fijo, li campagnoli stanno in guerra,
tutti ar campo e combatteno. La mano
che seminava er grano
e che serviva pè vangà la terra
adesso viè addoprata unicamente per ammazzà la gente…
Guarda, laggiù, li lampi
de li bombardamenti!
Li senti, Dio ce scampi,
li quattrocentoventi
che spaccheno li campi? –

Ner dì così la Madre der Signore
s’è stretta er Fijo ar core
e s’è asciugata l’occhi cò le fasce.
Una lagrima amara pè chi nasce,
una lagrima dòrce pè chi more…