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Frosinone-Roma 0-2. C’è da dire..

Una settimana passata a discutere di De Sanctis in porta, Uçan sulla trequarti, De Rossi in difesa e Totti al centro dell’attacco. E invece Garcia sceglie Rudiger insieme a Manolas (che in una stagione ha cambiato più compagni di reparto de quanti costumi cambia Brachetti in uno spettacolo), De Rossi e Keita insieme a centrocampo, Totti e Dzeko insieme in attacco. Tutti insieme appassionatamente. Pure Gervinho. Quest’ultimo insieme alle madonne (mie) che da un anno lo accompagnano ogni volta che caracolla sul terreno di gioco.

Praticamente pronti-via e Dzeko liscia un pallone di quelli “solo da spingere in rete”, a un metro dalla linea. Ed eccoli lì, gli spettri di Lecce e Venezia (ma anche Sassuolo, per dire) che riappaiono puntuali come le tasse.

Con Nainggolan in panchina Gervinho si esalta nella veste di “distruttore di gioco”. L’ivoriano però distrugge il nostro, di gioco. Alternando movimenti in orizzontale e in verticale esattamente opposti rispetto a quelli richiesti – e attesi – dai compagni. Preso in questo vortice di pressappochismo, Keita prosegue il Festival del Liscio ciccando di testa una palla all’altezza dell’area piccola.

Per fortuna uno che fa i movimenti giusti c’è, e al 27esimo Szczęsny si allunga sulla sua destra e compie una prodezza su Tonev.

Il livello del calcio proposto dalle due squadre è quello che è, e trova l’apice allo scadere del primo tempo quando il contemporaneo liscio di testa di Dzeko e Diakite manda a vuoto Gervinho e Blanchard che – lisciando a loro volta – mandano fuori tempo Iago Falque, che strozza il tiro sul piede di Soddimo. Che spiazza Leali. E fa 0-1. E fine primo tempo.

E meno male.

Ah vabbè, ma il Frosinone è inesperto, fragile, subirà il contraccolpo del goal subito allo scadere. Preso dalla foga, sospinto dal tifo infuocato del Matusa si scoprirà e lascerà spazi alla Roma. Uh, hai da vede. Troviamo talmente tanti spazi che nei primi venti minuti della ripresa Szczęsny è quello che gioca più palloni. E dimostra, peraltro, di avere più tecnica di tutti i centrali in rosa, De Rossi compreso.

55°, fuori Dzeko e dentro Nainggolan. E a quel punto, ovviamente, uscita la torre cominciano a fioccare i lancioni. Gervinho, nel frattempo, è ancora campo.

70°, fuori Iago Falque (stremato) e dentro Salah (era ora). Gervinho, inopinatamente, è ancora in campo.

80°, esce il Capitano, per Iturbe. Gervinho è assurdamente ancora in campo. Non se ne capacita nessuno. Tantomeno i suoi compagni di squadra che, in un rigurgito di lucidità tattica, pur di non sprecare la palla appoggiandola all’ivoriano tornano a cercare triangolazioni e sovrapposizioni. Salah e Iturbe riscrivono – a 300 all’ora – le regole della geometria. E, nonostante l’ivoriano si sbracci al centro dell’area per segnalare la sua presenza, l’opzione scelta da Iturbe è quella te-la-passo-cor-cazzo-e-segno-io. Botta sotto la traversa, 0-2 e partita finita.

C’è da dire, che abbiamo vinto. C’è da dire, che abbiamo vinto perché loro so’ scarsi forte. C’è pure da dire, però, che abbiamo vinto co’ Gervinho in campo.

Roma-Juventus 2-1. Kalokagathìa.

Kalós kai aghatós. L’indissolubile identità tra bellezza e virtù che distingue l’uomo nobile. Una bellezza unica, irriproducibile, e per questo coinvolgente e totalizzante. Che conquista allo stesso tempo la superficie dei sensi, la profondità dell’anima e la complessità della mente.

Una bellezza che si irradia nello spazio e nel tempo.

Quello spazio e quel tempo sospesi, in particolare, tra le parole “colpo di testa di Bonucci” e  “Szczesny ci arriva con la punta delle dita”.

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Kalós kai aghatós.

Verona-Roma 1-1. Ricominciamo, pareggiando.

Ricominciamo, finalmente.

E ricominciamo sperando di vedere una Roma nuova. Quella Roma 3.0 che invochiamo da Febbraio, dopo che gli aggiornamenti del software tentati da Garcia e la nuova App “Doumbia centravanti” installata da Sabatini si sono rivelati fallimentari come un Windows Vista qualsiasi. Però ricominciamo con una formazione che, anche al meno smanettone, risulterebbe subito piena di bug. Ricominciamo con Dzeko e Salah nel tridente d’attacco, è vero. Ma pure co’ Gervinho. Ricominciamo con Castan (bentornato) al centro della difesa. Ma pure co’ Torosidis raccattato a sinistra.

Ricominciamo con il centravanti costretto ad agire da regista offensivo e i due attaccanti laterali obbligati a giocare la palla con le spalle alla porta per ovviare all’assenza di una fonte di gioco che possa verticalizzare rapidamente. E giocando la palla spalle alla porta Gervinho e Salah sono molto meno pericolosi. E “molto meno pericolosi” è un gentile eufemismo per evitare di cominciare la stagione con una sequela di madonne. Oh, lo dico chiaro e tondo, tanto siamo tra amici. Se questo è il gioco che Garcia ha intenzione di proporre come alternativa a Totti, ammazzatemi. Almeno smetto di soffrire.

Ricominciamo con Hallfredsson trasformato nel perfetto mix tra Roy Keane e Juan Sebastian Veron. E con Jankovic che aspetta la Roma per svegliarsi, ricordarsi di essere una grande promessa, segnare e poi precipitare di nuovo in letargo (almeno fino alla 1° giornata di ritorno). E ricominciamo con Florenzi che gioca contemporaneamente da terzino, ala e interno, che corre, copre, contrasta, spazza, tira e – già che c’è – segna pure.

Ricominciamo con le sostituzioni e gli accorgimenti tattici fatti a risultato compromesso. Fuori De Rossi, davvero troppo lento e impreciso nel far ripartire l’azione (non che Keita abbia fatto molto meglio, ma questo passa il convento). Pjanic spostato come vertice alto di centrocampo anziché interno, ruolo nel quale veniva sovrastato fisicamente anche da Souprayen (che più che un terzino sembra un complesso multivitaminico). E ricominciamo anche con l’intoccabile Gervinho.

Ricominciamo con un 1-1 striminzito, un’ultima sostituzione da fare a 10′ dalla fine, con Totti e Ljajic in panchina, e con Ibarbo in campo come mossa della disperazione. Bisognava allargare l’azione, ha spiegato il tecnico nel dopo-partita. E laddove avevano fallito Salah, Gervinho e Iago Falque, doveva riuscì Ibarbo. Ibarbo. I-Bar-bo.

E infatti, ricominciamo pareggiando.

PS. Ricominciamo anche con l’inno “O Generosa”, composto per la Serie A da Giovanni Allevi. Che scopro essere l’orrida musica che accompagnerà l’inizio delle partite per tutto il campionato, e su cui hanno glissato signorilmente anche i telecronisti di Sky. Ad un primo ascolto fa rimpiangere le marcette suonate in classe col flauto alle medie. Perfino i cori “RomaRomaVaffanculo” con cui i fini pensatori scaligeri l’hanno sovrastato sembravano musicalmente più appropriati.

LDAPOST della domenica. Lazio-Roma 1-2. Sulla felicità, sui paradisi, sulla filosofia, e sui laziali.

In ogni parte del mondo il tifoso di calcio vive sognando i trionfi della propria squadra ma – nell’intimo – si nutre delle sconfitte dei rivali. D’altronde l’essere umano gode anche del privilegio di poter trarre gioie nuove e sottili persino dal dolore, dalla catastrofe, dalla fatalità*.

Ecco perciò che, assodato come il 26 maggio 2013 la Lazio abbia battuto la Roma in finale di Coppa Italia, da quella data ad oggi su striscioni, coreografie, social network, giornaletti, radio, volantini e scritte sui muri, sia stato tutto un fiorire di Coppenfaccia.

Un paradiso in terra, per chi ha vinto.

Ma il buon senso ci dice che le cose sulla terra durano poco, e che la vera realtà si trova soltanto nei sogni. Per digerire la felicità naturale, come quella artificiale, bisogna avere innanzitutto il coraggio di ingoiarla**.

Ed è questo il punto su cui si interrogano e discutono da secoli l’arte e la filosofia. Una gioia, finanche un paradiso in terra, se non si ha la forza di “archiviarla” e di guardare avanti, perde la sua natura. Nulla è più fatale alla felicità che il ricordo della felicità stessa***. E quel paradiso in terra finisce per diventare un paradiso artificiale. Una droga della quale non si può più fare a meno per proteggersi dalla realtà, dall’inesorabile scorrere del tempo e dal volgere del destino. Ma orrenda è la sorte dell’uomo la cui immaginazione, paralizzata, non sia più in grado di funzionare senza il soccorso dell’hashish o dell’oppio****.

Eccoli dunque, i laziali. Fermi lì. Immobili. Con ‘sta benedetta Coppa tra le mani. Le braccia tese e i muscoli tirati nello sforzo di arzattelanfaccia. Col sorriso che da espressione di incontenibile felicità è diventato una maschera surreale con cui cercare, nell’eventuale fastidio altrui, l’essenza di una propria gioia. Ma soprattutto eccoli, con la visuale oscurata da un oggetto di cui, per quanto possa essere carico di significato, nessuno può modificare la natura. Di “oggetto”, appunto. Con forma, materiali, dimensioni e volume ben evidenti. Che non è mica trasparente, e se te lo tieni davanti agli occhi finisci che non vedi niente. Di “oggetto”, che per quanto uno possa lustrarlo, spolverarlo, lucidarlo, alla lunga non può che diventare un altarino dei ricordi sbiaditi, memorabilia di una storia che fu. Come la foto in sala da pranzo del poro trisnonno. A cui vorrai sempre bene, ma che ormai non sai manco più se l’hai conosciuto davvero.

Eccoli lì, allora. Tutti ancora stretti dietro a ‘sta coppa. Convinti di infliggere un dolore senza pari a tifosi che, a stento, se ne ricordano. Celebrando un marcatore che, a stento, ancora sta in rosa. Inneggiando a un capitano che, a stento, sta ancora a piede libero. Ignari che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti vuol dire che si possono sopportare*****.

Allora lasciamoli così. Co ‘sta coppa in mano, a sperà nei fallimenti degli altri. Troppo impegnati a urlà Telhoarzatanfaccia per accorgersi che da là dietro non vedono niente e finiscono per perdersi così bei panorami:

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Ops.

NOTE

*, ** e ****: Charles Baudelaire, I paradisi artificiali.

***: André Gide.

*****: Epicuro, Lettera a Meneceo (sulla Felicità).

LDAPOST della domenica – Roma-Genoa 2-0. Concretamente.

Sono le 12.30 di Domenica, e fa caldo. E a qualcuno ‘sto primo caldo, deve aver dato alla testa nel vero senso della parola. Perchè tra le creste di Nainggolan e Niang, le treccine di Laxalt e Gervinho, la chioma di Perin e la chierica di Torosidis più che una partita di campionato sembra una fiera di parrucchieri psicopatici.

Ma tant’è. Si vara la Roma 2.0 di Rudi Garcia. Meno spettacolo (e, porca zozza, fare ancora meno spettacolo degli ultimi mesi è dura…) e più concretezza. E al 15esimo si può concretamente dire che la Roma 2.0 gioca – concretamente – coi lancioni. Il Genoa, nel frattempo, comincia con la spregiudicatezza tipica delle squadre di Gasperini: corsa forsennata in fase di recupero palla, caccia senza pietà alle caviglie di Ibarbo e incredulità ai limiti dello sgomento con la palla tra i piedi. Tale è la voglia dei centrocampisti rossoblu di difendere con intensità a tutto campo che finiscono per pressarsi tra loro e mettere Doumbia davanti alla porta. E Doumbia segna. Sì. Segna. E il goal lascia tutti di stucco per la finta e la freddezza. E poi proprio per la definizione: “goal di Doumbia”. Li mortè.

Ora, è vero che l’ivoriano c’ha una percentuale di realizzazione praticamente del 100%, (pari solo alla percentuale di madonne corrispondenti ad ogni suo patetico tentativo di stacco di testa) ma l’inquadratura nel tunnel dello spogliatoio mentre si alza il colletto della maglia con l’aria tronfia di un coatto sovrappeso fa pensare a tutto, tranne che a uno spietato finalizzatore.

Si riparte, comunque. Il Genoa preme, la Roma soffre e Garcia, concretamente, leva Doumbia per Iturbe. Pjanic fa l’esterno sinistro e Ibarbo l’esterno destro. Quella che è evidentemente una (tanto attesa) variante tattica, viene subito sminuita da Sky come il più classico dei 4-4-2. Inutile stare a precisare che se l’avesse fatto Conte per gli stessi opinionisti sarebbe stato un coraggioso 4-2-4.  Il nuovo assetto, quale che sia, sembra restituire  un po’ di gambe alla Roma. Torosidis trova qualcuno a cui sovrapporsi e da cui farsi lanciare in area. Corsa, sgambetto, rigore. Anzi no, giallo per simulazione. La decisione di D’Amato di Barletta non si commenta. Come non si commenta l’inutilità degli arbitri addizionali d’area, evidentemente buoni solo pe’ fa’ le marionette di Pulcinella al Gianicolo.

Yanga-Mbiwa per Pjanic è un cambio che mi atterrisce, ma serve a recuperare centimetri e forza fisica. Così come l’ingresso di Holebas per lo sfinito Ibarbo. Che poi, diciamocelo, il problema di Ibarbo è che lo spacciano per un attaccante. Se fosse arrivato come centrocampista difensivo sarebbe stato pure un bell’acquisto…

Comunque, il messaggio è chiaro: meno spettacolo e più concretezza. Tradotto: barricamose. E se barricamo talmente bene che, per una volta, il break ce riesce. Florenzi corre palla al piede accompagnato da Gervinho e dai pensieri di tutti “nun-je-la-passà-nun-je-la-passà-nun-je-la-passà”. E infatti nun-je-la-passa. E, concretamente, fa 2-0.