Diverbi Di verbi.

Federico Demartini, Diverbi di Verbi, Good Types, 2019. Photo Dario Sonatore.
Federico Demartini, Diverbi di Verbi, Good Types, 2019. Photo Dario Sonatore.

Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste. Le parole sono importanti! Così diceva Nanni Moretti/Michele Apicella in “Palombella Rossa”. 

Oggi, che da quel film sono passati 30 anni, e dalle parole veniamo travolti – in alcune circostanze quasi perseguitati – 24 ore su 24, ancora più importante è l’utilizzo che ne facciamo. Il contesto, il modo, il tempo, forse addirittura l’istante in cui una parola è scritta o pronunciata. E il “peso”. Quello che le parole hanno e quello che, volendo o non volendo, noi gli possiamo dare.

Tutto questo, nell’epoca dei social, degli hastag, dell’immediatezza, è bene che ci venga ricordato. E’ quello che Federico Demartini fa con la rubrica Bisticci per Frizzifrizzi. Attraverso quelli che sembrano semplici giochi di parole (il “bisticcio” è un preziosismo letterario che prevede l’accostamento di parole dalla somiglianza formale ma radice etimologica diversa) invita a riflettere sul senso che le parole possono assumere. Quindi, in un certo senso, ad avvicinarsi per capire meglio anziché allontanarsi in tutta fretta con la convinzione d’aver già capito.

Il libro Diverbi di verbi ne propone 8: scordare, errare, piacere, spiegare, salutare, avanzare, decantare e (il mio preferito) accettare.

La prima edizione è degna celebrazione di questo “ragionamento creativo”: realizzata in letterpress da Claudio Madella (Graphic designer, fondatore di Good Types) utilizzando caratteri mobili di legno e di piombo, ha avuto una tiratura di 85 esemplari. Non è solo un libro, quindi. Tantomeno solo un oggetto di design.

E’ – materialmente e letterariamente – un bisticcio.

L’invasore.

Erdogan ordina l’attacco: l’esercito turco invade il nord della Siria. Photo: Repubblica.it

Erdoğan ha iniziato l’invasione.

In questi anni noi – l’occidente democratico – abbiamo assistito, al sicuro, davanti agli schermi al plasma delle nostre mega TV, all’annientamento di civiltà, società e comunità, sterminate a colpi di mortaio. Lontano da casa nostra.

Abbiamo visto le immagini della bandiera nera di Daesh innalzata su una montagna di gole tagliate e corpi decapitati rimbalzare di social network in social network. A un passo da casa nostra.

Abbiamo pianto i morti per la barbarie terrorista. A casa nostra.

E allora abbiamo chiesto a Kobane di resistere, a Raqqa di non cedere. Abbiamo ammirato il coraggio delle donne e dei ragazzi sul fronte. 

Abbiamo chiesto il loro aiuto. Le loro vite. Ma non abbiamo ascoltato la loro voce. 

Con il “sultano” abbiamo continuato a fare affari. L’abbiamo ricevuto con i mille onori che si devono a uno statista. Abbiamo persino sorriso quando un giovane calciatore gli ha reso omaggio col saluto militare dopo un goal. Perchè dai, tanto che vuoi che sia…

Bene. Quello che sta facendo oggi Recep Tayyip Erdoğan, con (ovviamente) l’approvazione di Trump e contando (altrettanto ovviamente) sull’indifferenza di questa Europa pavida e mediocre, non è una “questione” politica, o ideologica. Non riguarda la Siria, la Turchia o il Kurdistan. E’ un attacco sfacciato e diretto al nostro bell’occidente democratico. Perchè quando i miliziani di Daesh torneranno ad infuocare la Siria, quando ridaranno linfa a qualche folle cellula di terroristi, quando spareranno di nuovo sotto le nostre finestre (a un concerto, in uno stadio, in un mercato) inneggiando al califfato, noi dovremo trattare direttamente con lui. Potremo trattare solo con lui.

E avrà vinto.

Recep Tayyip Erdoğan, oggi, CI sta invadendo.

Testardi senza gloria.

M. Muscarà, D. Carboni, G. Romano, Testardi senza Gloria, Edizioni Efesto, 2019.

L’Ajax di Cruyff. Il Milan di Sacchi. Il tiki-taka di Guardiola.

Il Verona di Bagnoli, il Leicester di Sir Claudio Ranieri o la Nazionale del 2006. La classe di Maradona, Cristiano Ronaldo, Messi, Zidane. Francesco Totti. La grinta di Roy Keane. La “vena” di De Rossi. Il triplete dell’Inter. Il goal di Turone o il fallo di Iuliano su Ronaldo.

La maglia a righe orizzontali bianche e verdi del Celtic, l’arancione dell’Olanda, CCCP sul petto dei calciatori dell’Unione Sovietica di Lobanowski. La Jugoslavia che non abbiamo mai potuto vedere. Wembley, San Mamés, la Bombonera.

Pensiamo al calcio, non al tifo. Alla squadra che più ci ha emozionato, all’episodio che ci ha fatto infuriare, al personaggio che ci ha affascinato, ai colori delle maglie che abbiamo sognato. Ecco, in questo libro non ne troveremo traccia.

Ma se per il tempo necessario a leggere le storie raccontate da Marco Muscarà, Daniele Carboni e Giovanni Romano pensiamo al calcio in modo assoluto, puro, allora in “Testardi senza gloria” (ed. Efesto, 2019) troveremo tutto ciò che questo sport sarebbe in grado di suscitare se il tifo, molto spesso – troppo spesso – non finisse per soffocarlo, nasconderlo. Fino a farcene dimenticare.

Lo stile degli autori, che non rinunciano al rigore della cronaca, è caldo e coinvolgente. Più vicino all’ammaliante affabulare delle radiocronache, alle voci di Carosio, Martellini e Ciotti (non è un caso, tutti e tre sono speaker a Radio Sonica, Radio Centro Suono Sport e Radio Rock) che ai concitati ritmi delle televisioni, alle chiacchiere superficiali dei post partita, all’ossessiva riproposizione degli highlights. Il risultato è un libro di racconti di coraggio, passione, appartenenza e condivisione. Di vittorie e di sconfitte. Di libertà e di giustizia, sempre con un pallone tra i piedi.

Milano, la Colonna Infame.

Nel cuore della movida milanese, a pochi passi dalle “colonne di San Lorenzo”,  una scultura in bronzo (realizzata nel 2005 dall’artista Ruggero Menegon) ricorda un episodio risalente all’epidemia di peste del 1630. Sì, proprio quella raccontata da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”.

La Colonna Infame, Ruggero Menegon, bronzo, 2005.

Siamo all’angolo tra via Gian Giacomo Mora e Corso di Porta Ticinese. Oggi, tra negozi di abbigliamento, piccoli locali e qualche canapa-shop, il continuo via vai di giovani e turisti anima l’ampio e suggestivo piazzale antistante la Basilica di San Lorenzo Maggiore. All’epoca dei fatti in una delle umili abitazioni, quelle che le cronache definivano “nient’altro che catapecchie”, edificate nel corso del tempo proprio lì, intorno al quadriportico ed al colonnato della Basilica, vivevano le prime protagoniste della storia, Caterina Rosa e Ottavia Boni. Le due popolane, già di primo mattino affacciate alla finestra, dichiararono alle autorità di aver visto un uomo, con il viso nascosto da un cappello e un mantello nero, sfiorare i muri delle case lasciando delle macchie oleose e giallastre. 

In pochissimo tempo la paura della terribile epidemia e le superstizioni (esasperate dalla diffusione della malattia, a Milano i morti arrivarono a 64.000) trasformano una semplice “voce” in una certezza, e un uomo dall’andatura barcollante nel colpevole dei contagi: quello che le due donne avevano visto all’opera era senza dubbio un untore.

Le indagini condotte dal Capitano di Giustizia, tanto rapide quanto superficiali, portarono all’arresto del Commissario di Sanità Guglielmo Piazza. Semplici macchie d’inchiostro nero sulle sue mani, scambiate per i resti del misterioso unguento pestilenziale, bastarono a provare l’accusa e giustificare il ricorso alla tortura. 

Ai giudici non interessavano i fatti, né le spiegazioni razionali. A loro serviva un capro espiatorio su cui far sfogare la rabbia del popolo, sempre più impotente di fronte al propagarsi incontrollato della peste. Così, nella speranza di aver salva la vita, Piazza provò a fornirglielo, accusando a sua volta Gian Giacomo Mora. Barbiere di professione, anche lui abitava e lavorava nella zona di San Lorenzo. E tra i balsami, i saponi e i medicamenti tipici del mestiere (come tutti i barbieri del suo tempo svolgeva infatti anche funzioni di primo soccorso), conservava un preparato di sua creazione per lenire, o che quantomeno avrebbe dovuto lenire, le ferite degli ammalati. Quando le guardie nel corso della perquisizione della sua bottega ne trovarono i resti in una bacinella, si rese conto di non avere più scampo. Torturato per ore, pur di porre fine alle sofferenze pronunciò le parole che i giudici volevano sentire: a ungere i muri e diffondere la peste erano stati lui e Piazza.

Condannati a morte, una macabra processione li scortò dal Palazzo del Capitano di Giustizia sino al luogo delle esecuzioni, l’attuale piazza Vetra. Durante il tragitto furono tormentati con ferri roventi, e davanti alla bottega del Mora ai due fu amputata la mano destra. Quindi furono legati alla “ruota” e colpiti senza pietà. Agonizzarono, davanti alla folla che si era radunata nella piazza, per sei ore. Poi, i corpi vennero bruciati e le ceneri gettate nel canale della Vetra.

La casa del Mora si spiani, et in quel largo si drizzi una Colonna, la quale si chiami Infame et in essa si scrivi il successo, né ad alcuno sia permesso mai più riedificare detta casa (da “La sentenza data a Guglielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora”, 1631).  L’abitazione-bottega del Mora fu distrutta e sul posto, oltre alla Colonna, come monito ai cittadini fu apposta una lapide (oggi conservata al Castello Sforzesco) con la descrizione degli avvenimenti e le atroci pene inflitte ai colpevoli.

Lapide della Colonna Infame, Milano, Castello Sforzesco (Corte Ducale)

Qui dov’è questa piazza sorgeva un tempo la barbieria di Gian Giacomo Mora il quale congiurato con Guglielmo Piazza pubblico commissario di sanità e con altri, mentre la peste infieriva più atroce sparse qua e là mortiferi unguenti, e molti trasse a cruda morte. 

Questi due adunque giudicati nemici della patria, il senato comandò che sovra alto carro martoriati prima con rovente tanaglia e tronca la mano destra si frangessero colla ruota, e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati, poscia abbruciati e perché nulla resti d’uomini così scellerati, confiscati gli averi si gettassero le ceneri nel fiume.
A memoria perpetua di tale reato questa casa officina del delitto il Senato medesimo ordinò spianare e giammai rialzarsi in futuro, ed erigere una colonna che si appelli infame. 

Lungi adunque, lungi da qui buoni cittadini, che voi l’infelice infame suolo non contamini.

Dell’originale “colonna infame” non abbiamo nessuna traccia. Nel 1778, infatti, divenuta simbolo delle atrocità commesse all’epoca dalla “giustizia”, fu rimossa.

Dell’episodio, e del processo a Mora e Piazza, abbiamo invece un’ampia documentazione. Su tutte, il saggio “Storia della Colonna Infame” di Alessandro Manzoni (pubblicato in prima edizione nel 1840 come appendice a “I promessi sposi”). Molto più della cronaca di un episodio storico. Un’accusa, diretta e attualissima, all’ipocrisia, alla codardia, all’ignoranza, al pregiudizio e alla superficialità umana.

Sarebbe bello se, oggi, al monumento di Menegon, venisse dato maggior risalto. Se il punto in cui sorgeva la casa del Mora non fosse lasciato a confondersi tra banche, negozi e locali. E se al suo fianco fosse riportato questo breve passo, tratto dall’introduzione dell’opera:

L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli…

DDR. Come i fuochi d’artificio.

Come i fuochi d’artificio. Come l’esplosione fragorosa, rumorosa, improvvisa che ti fa sussultare. Come le luci di mille colori, che si confondono con le stelle. E quei secondi di silenzio tra uno e l’altro, quando il cielo torna buio e silenzioso. Qualcuno è così bello da lasciarti a bocca aperta, qualcuno ti fa sorridere, qualcuno ti delude. Ma tu rimani lì, con lo sguardo rivolto in alto, perché sai già che dopo pochi secondi arriveranno altre luci, altri colori. Anche quando hai capito di aver appena visto l’ultimo, perché l’ultimo si riconosce sempre, rimani lì.

Ecco, se penso ai 18 anni di Daniele De Rossi nella Roma, penso ai fuochi d’artificio. Di questo lungo spettacolo, ho scelto sei momenti. I miei preferiti.

Gli esordi.

Sì, al plurale. Perché nella Roma De Rossi ha debuttato due volte. 

In Champions League, il 30 ottobre del 2001. Con l’Anderlecht finisce 1-1. La Roma è già qualificata al secondo girone, e Capello, al 71esimo, sostituisce il redivivo Ivan Tomić  (peraltro, la migliore tra le sparute apparizioni del serbo con la maglia giallorossa) con un promettente diciottenne, biondo, e con i capelli tenuti fermi dall’immancabile elastico. Promettente, sicuramente. Ma ancora non così tanto da conquistarsi uno spazio stabile in una rosa che a centrocampo aveva gente del calibro di Tommasi, Emerson e Assunçao.

Infatti l’esordio vero e proprio, da titolare, arriva solo un’anno e mezzo dopo, in campionato. 10 maggio 2003, Roma-Torino 3-1. Non solo Al 55esimo il suo destro da fuori area (da molto fuori area…) è imparabile per Sorrentino. E’ il goal del 2-0. L’esultanza è così semplice e spontanea da sembrare quasi goffa. E’ felicità pura.

Fino a quel momento si parlava di cederlo in prestito per farlo crescere (storia già vista con un altro Capitano…). Capello in estate per il centrocampo aveva a lungo inseguito Edgar Davids. Ma da quel momento, nonostante l’annata negativa della squadra e sole quattro presenze (con due goal), inizia a farsi largo l’idea di non averne più bisogno…

Buttace i guanti.

9 Luglio 2006. Finale del Campionato del Mondo, Italia-Francia. Non ho una grande passione per la nazionale, ma il Mondiale è sempre il Mondiale. E quello del 2006, è un Mondiale particolare davvero. Calciopoli, Moggi, gli arbitri, la Juventus ecc. ecc. Ma quello che succede durante quel Campionato del Mondo, è un esempio perfetto del frenetico susseguirsi di errori e riscatti che hanno scandito la carriera di De Rossi. Vette altissime e abissi, onde travolgenti e placide risacche, litigi furiosi e baci appassionati. Tutto, sempre, a testa alta. Come un uomo, non solo come un calciatore.

Nel centrocampo azzurro è un giocatore fondamentale, il CT Lippi non ne fa mistero. Ma durante la seconda partita della fase a gironi, contro gli USA, colpisce con una gomitata al volto McBride. Viene espulso, giustamente, e squalificato per quattro giornate. Mondiale finito, dicono in molti. E poi via, con le solite note “di colore”: è immaturo, istintivo, violento, è il solito romano coatto, è un bullo di Ostia. 

Però quando Italia e Francia si giocano la finale a Berlino, non solo torna in campo (intorno al 60esimo, sostituisce Francesco Totti) ma è tra i cinque designati per i rigori che assegneranno il titolo. Calcia il terzo, fondamentale perché Trezeguet ha appena sbagliato. Tira forte, anzi fortissimo, all’incrocio dei pali. Poi sibila “e mo’ buttace i guanti, Barthez”.

Il carattere.

Ma non il temperamento sul campo. Non quella “vena gonfia” che a volte – troppe, forse – lo ha tradito, finendo per tradire lui con noi. Quello che gli ha permesso di affrontare e superare vicende che avrebbero fatto “deragliare” tanti. E che sciacalli dall’italiano zoppicante e dalla fedina penale spesso lurida, dai pulpiti di frequenze radiofoniche affittate e autogestite, non hanno avuto remore a gettare in pasto ad un’opinione pubblica gossippara e guardona, pronta a trasformare ogni errore in crimine e ogni critica in accusa. Sciacalli a cui ha avuto la forza di non sottomettersi e a cui non ha permesso di infamare allo stesso modo amici e colleghi. Che non ha esitato ha descrivere per quello che sono e per quello che valgono. Bugiardi? Calunniatori? Non solo, non proprio. Meglio papponi, che fanno i padroni a Trigoria (QUI) o maiali col microfono, che resteranno maiali col microfono (QUI).

E da quel momento, Capitan Ceres. Capitan Birretta. Sfregiato dai Casamonica. Ubriaco tutte le sere a Campo de’ Fiori. Capitan 6 milioni di euro. Non gioca una partita buona da 10 anni.  

Gli occhi.

20 aprile 2016. Roma-Torino 3-2. Sì, quella della doppietta di Totti in meno di 4 minuti. La Roma è sotto 1-2, il Capitano in panchina. E’ la fase finale della carriera, la penultima stagione e il rapporto con Spalletti è già ai minimi termini. Al 41esimo del secondo tempo viene mandato in campo come mossa della disperazione. Il resto è storia. Basta una manciata di secondi, punizione di Pjanic, sponda di Manolas e spaccata sul secondo palo. 2-2. Altri due minuti e Maksimovic devia con un braccio il cross di Perotti. Rigore, 3-2. I festeggiamenti sfiorano l’isteria, sul campo e sugli spalti. Mentre il Torino porta mestamente il pallone a metà campo l’inquadratura di Sky sfiora De Rossi in panchina. E’ questione di attimi, ha le labbra serrate e gli occhi lucidi, come chi fa di tutto per non scoppiare a piangere. Come noi, davanti alla tv o allo stadio. 

Gli occhi di De Rossi sono sempre stati anche gli occhi nostri.

Una vittoria.

La mia preferita: 19 agosto 2007. Sono gli anni in cui le competizioni sembrano un’affare privato tra Roma e Inter. E infatti è con loro che siamo a contenderci la Supercoppa. Al 72esimo Totti dalla fascia sinistra entra in area, sterza verso il centro e viene steso da Burdisso. L’arbitro Rosetti fischia il rigore (è talmente evidente che anche lui non può farne a meno). Sul dischetto, quando tutti si aspettano il Capitano, c’è De Rossi. Basso, forte, a fil di palo, alla destra del portiere. 0-1: gioco, partita, incontro. 

E’ solo una Supercoppa. E’ vero. Ma il momento successivo a quella vittoria credevo davvero che la storia della Roma avesse preso un’altra piega. Si è rivelata un’illusione. Ma meravigliosa.

Il 26 maggio.

Coppanfaccia, Lulic71, noncèrivincita. E le foto di De Rossi a capo chino. Gli striscioni sulla “giornataccia” appesi al Colosseo e i post non potevi fini’ che de 26 maggio. Beh, è vero. Perché questo fanno i capitani. Proteggono, prima di tutto. Quando è il caso si caricano sulle spalle le delusioni dei tifosi, per alleviargli il peso. Gli fanno scudo, e poi gli indicano la strada da seguire. E questo è quello che il destino gli ha concesso di fare anche nella sua ultima partita. Perché il 26 maggio, da stasera, è tutta un’altra storia. E’ tutta un’altra cosa. Quindi ok, coppanfaccia, Lulic71, noncèrivincita. Tanto chi un Capitano così non ce l’ha mai avuto, non lo può capire.

(Photo by Luciano Rossi/AS Roma/Getty Images)

Ecco, adesso anche l’ultimo fuoco d’artificio è scoppiato. Intorno s’è fatto tutto più silenzioso, e tutto è tornato più buio. Però non se ne va nessuno. Vogliamo stare ancora con la testa in su. 

A sperare che lo spettacolo duri ancora un po’.

appunti sparsi, in ordine sparso.