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Jo Nesbo, Polizia. Da leggere assolutamente.

Oslo è sconvolta dai delitti del “macellaio dei poliziotti”. L’hanno chiamato così per la violenza inaudita con cui si accanisce sulle sue vittime, tutti poliziotti attirati e uccisi sui luoghi di crimini irrisolti su cui avevano indagato.

Ma chissenefrega, in fondo.

Jo Nesbo, Polizia. Einaudi.
Jo Nesbo, Polizia. Einaudi.

Perché il punto è sapere che fine ha fatto Harry Hole, che nell’ultimo capitolo de “lo Spettro”, con due pallottole in pancia e una – probabilmente – in testa, cadeva a terra pensando Finalmente è tutto finito. Il punto è sapere che fine ha fatto Oleg, il figliastro di Harry, se così si può definire il figlio di una (ex) fidanzata devastato dalla tossicodipendenza che, peraltro, è quello che ha sparato. Il punto è capire chi è quella persona in coma, per ferite da arma da fuoco, attorno a cui ruota la prima parte del libro.

A questo punto, se avete intenzione di comprare “Polizia”, se lo avete iniziato, se lo avete dimenticato sotto altri libri sul comodino, non continuate a leggere questo post perché – ebbene sì! – ho intenzione di spoilerare un po’.

Perché è quando la trama si è già intrecciata e “il Macellaio” sembra già inafferrabile che Katrine Bratt ci porta in un’aula della scuola di polizia ad assistere alla lezione di un docente con una cicatrice che come una crepa nel ghiaccio partiva dall’angolo della bocca e arrivava all’orecchio, un’altra sulla gola, sembrava una ferita da coltello e un’altra ancora sul lato della testa all’altezza delle sopracciglia, poteva essere stata causata da una pallottola. Non è morto. E non è in coma. Harry Hole è vivo. E meno male perché io, in tutta franchezza, ancora mi devo riprendere dalla fine tragica della “Trilogia di Montale” di Izzo.

Il libro è duro. Violenza, crimini e tradimenti. E come sempre Harry Hole è in bilico tra l’arrampicarsi (a fatica) verso la felicità o lasciarsi precipitare nel dolore. Tra il caffè e la bottiglia. Tra costruire qualcosa di stabile, di bello, o distruggere tutto. E distruggersi.

Il Libro è rabbia cieca: Faceva tanto male, così male che non riusciva a respirare, così male che dovette piegarsi su sé stesso, come un’ape morente con il pungiglione strappato. E udì un suono sfuggirgli dalle labbra, come se fossero di un straneo, un lungo ululato che riecheggiò per il quartiere immerso nel silenzio.

Ma è anche serenità: Poi Rakel sorrise. E Harry si accorse di sorridere a sua volta, senza sapere chi dei due avesse cominciato. Lei tremava un pochino. Stava ridendo dentro di sé, e la risata stava montando così rapidamente che da un momento all’altro sarebbe esplosa.

E’ un gran bel libro. Quindi, se avete intenzione di comprarlo, fatelo. Se lo avete iniziato, finitelo. Se lo avete dimenticato sul comodino, correte a leggerlo.

Bella ciao.

Il problema di Giampaolo Pansa non è la sua conclamata partigianofobia. Neanche la sua ossessione da accerchiamento comunista. Tantomeno la sua sconfinata idolatria per il “duce-portatore-di-ordine”.

Il problema di Giampaolo Pansa è che, nonostante la veneranda età raggiunta, non ha ancora capito che è proprio grazie alla Resistenza che, oggi, può liberamente scrivere i suoi libri, promuoverli sui giornali, in televisione e alla radio e venderli (dice) a 95.000 persone.

Poi c’è da dire che, probabilmente, la Rizzoli farebbe bene a convincerlo a cambiare argomento. E non perchè i temi che affronta diano fastidio (sarebbe un riconoscimento assolutamente fuori luogo). Ma perchè, da un punto di vista strettamente storiografico, la sua analisi risulta, ogni volta di più, estremamente superficiale.

P.S. Un’ultima considerazione, in merito alla sua frase “ogni italiano è figlio o nipote di un fascista”. Ecco, ne sottragga tranquillamente uno.

Arab Jazz. Un po’ bello, e un po’ no.

Arab Jazz, di Karim  Miské ha vinto, nel 2012, il Grand prix de littérature policière.

Arab Jazz, di Karim Miské, Fazi.
Arab Jazz, di Karim Miské, Fazi.

Premio sicuramente meritato per la particolare impronta che l’autore ha dato ai personaggi, evidentemente figli – come lui (nato in Costa d’Avorio da madre francese e padre mauritano, e cresciuto in Francia) – di quel cosmopolitismo tipicamente parigino in grado di rendere le differenze culturali e religiose grandi ricchezze o  pericolose fonti di contrasto a distanza di poche fermate di Metro. Sicuramente meritato anche per l’originale protagonista, Ahmed. Cronicamente depresso, incapace di relazioni sociali “normali”, protetto dalla corazza dei gialli che compra a chili, in un negozio di libri usati del quartiere in cui si e’ autoconfinato. Avvincente l’evoluzione dei due livelli di indagine sulla morte di Laura, una giovane hostess dell’Air France: quello ufficiale della polizia e quello “personale” di Ahmed (di cui la ragazza era innamorata).

Pero’ è proprio quel cosmopolitismo che all’inizio caratterizza il libro a diventare presto esagerato. Eccessivo, quando capitolo dopo capitolo si sovrappongono (e confondono) arabi, ebrei, asiatici, africani, turchi, armeni, cristiani, testimoni di Geova, poliziotti corrotti e criminali comuni. Troppe differenze, troppe sfumature diverse, troppi tratti particolari che, pur volendo mettere in risalto i contrasti, finiscono per appiattirsi.

Insomma, l’ho trovato un po’ bello. E un po’ no.

Poi, nota critica per l’editore Fazi: le note alla fine del libro sono scomodissime.

Il mio cuore cattivo.

Il mio cuore cattivo, Wulf Dorn, Corbaccio.
Il mio cuore cattivo, Wulf Dorn, Corbaccio.

Si chiama Dorothea, ma preferisce farsi chiamare Doro, la protagonista dell’ultimo thriller di Wulf Dorn. Ne “il mio cuore cattivo” l’autore tedesco conferma un’inarrivabile talento nel costruire thriller psicologici in grado di inchiodare i lettori alle pagine grazie a questa sedicenne che, invece di vivere una quotidianità “normale”, fatta di scuola, amici, divertimenti e primi amori, dopo la morte del fratellino è tormentata da orribili visioni e da un paralizzante senso di colpa. Neanche il trasloco in una nuova casa e in un nuovo paese riesce a fermare questa spirale di orrore, che sembra risucchiare la ragazza nonostante le sedute di terapia e gli psicofarmaci. Doro, infatti, non riesce a distinguere la realtà dalla sua immaginazione e diventa presto, anche in questa nuova realtà, “Doro la pazza”. Ma è proprio una di queste visioni, forse la piu’ spaventosa e allo stesso tempo, disperata, quella di un ragazzo morto suicida, a spingerla a non arrendersi, a non convincersi di essersi inventata tutto. E ad intraprendere una difficile e dolorosa indagine personale, alla ricerca della verità sulla morte del ragazzo e, contemporaneamente, alla radice della sua “pazzia”.

L’ipotesi del male.

Donato Carrisi è senza dubbio tra i migliori autori di thriller in Italia. Forse il migliore in assoluto. Thriller intensi, con un ritmo simile a un film dell’orrore. Di quei film horror ben fatti, pero’. Quelli che ti incollano alle poltrone del cinema proprio come le storie di Carrisi  ti fanno rimanere incollato alle pagine del libro.

Donato Carrisi, L'ipotesi del male, Longanesi.
Donato Carrisi, L’ipotesi del male, Longanesi.

L’ipotesi del male non fa eccezione, costruito in diversi registri attorno ad un temi piu’ adatti al genere: le sparizioni. Nella trama  si avverte la comprensione – senza assoluzioni preconcette, pero’ – per chi desidera sparire per diserazione, perchè sfinito, sconfitto, dalle difficoltà della vita. Ma, allo stesso tempo anche il riconoscimento delle viltà di molti tra i volti raffigurati sugli identikit appesi alle mura dell’ufficio dei poliziotti protagonisti, scomparsi lasciando qualcun altro alle prese   con le stesse difficoltà e con lo stesso dolore. Ritrovare quei volti, quindi, diventa quasi una necessità, una malattia. Un’esigenza (“io li cerco, li cerco sempre”) all’apparenza inspiegabile ma capace di unire investigatori diversissimi tra loro. Gli investigatori potranno guardare in faccia “Kairus”, il “Signore della buonanotte” solo mettendo in discussione molto, quasi tutto, della loro vita personale:  Mila Vasquez (già ne “il Suggeritore”, gran libro peraltro), che dovrà affrontare il suo passato e le sue conseguenti difficoltà nell’essere madre, e Simon Berish, sarà costretto ad uscire dalla “vergognosa” routine di poliziotto reietto.

Peccato, pero’, che la spiegazione degli efferati omicidi attorno a cui ruota la prima parte del libro si perda un po’ con il complicarsi della trama ed il susseguirsi dei colpi di scena, fino quasi a farli diventare ininfluenti per lo sviluppo di una storia in grado, comunque, di tenere sempre sulle spine il lettore.