Arab Jazz, di Karim Miské ha vinto, nel 2012, il Grand prix de littérature policière.

Premio sicuramente meritato per la particolare impronta che l’autore ha dato ai personaggi, evidentemente figli – come lui (nato in Costa d’Avorio da madre francese e padre mauritano, e cresciuto in Francia) – di quel cosmopolitismo tipicamente parigino in grado di rendere le differenze culturali e religiose grandi ricchezze o pericolose fonti di contrasto a distanza di poche fermate di Metro. Sicuramente meritato anche per l’originale protagonista, Ahmed. Cronicamente depresso, incapace di relazioni sociali “normali”, protetto dalla corazza dei gialli che compra a chili, in un negozio di libri usati del quartiere in cui si e’ autoconfinato. Avvincente l’evoluzione dei due livelli di indagine sulla morte di Laura, una giovane hostess dell’Air France: quello ufficiale della polizia e quello “personale” di Ahmed (di cui la ragazza era innamorata).
Pero’ è proprio quel cosmopolitismo che all’inizio caratterizza il libro a diventare presto esagerato. Eccessivo, quando capitolo dopo capitolo si sovrappongono (e confondono) arabi, ebrei, asiatici, africani, turchi, armeni, cristiani, testimoni di Geova, poliziotti corrotti e criminali comuni. Troppe differenze, troppe sfumature diverse, troppi tratti particolari che, pur volendo mettere in risalto i contrasti, finiscono per appiattirsi.
Insomma, l’ho trovato un po’ bello. E un po’ no.
Poi, nota critica per l’editore Fazi: le note alla fine del libro sono scomodissime.