Donato Carrisi è senza dubbio tra i migliori autori di thriller in Italia. Forse il migliore in assoluto. Thriller intensi, con un ritmo simile a un film dell’orrore. Di quei film horror ben fatti, pero’. Quelli che ti incollano alle poltrone del cinema proprio come le storie di Carrisi ti fanno rimanere incollato alle pagine del libro.

L’ipotesi del male non fa eccezione, costruito in diversi registri attorno ad un temi piu’ adatti al genere: le sparizioni. Nella trama si avverte la comprensione – senza assoluzioni preconcette, pero’ – per chi desidera sparire per diserazione, perchè sfinito, sconfitto, dalle difficoltà della vita. Ma, allo stesso tempo anche il riconoscimento delle viltà di molti tra i volti raffigurati sugli identikit appesi alle mura dell’ufficio dei poliziotti protagonisti, scomparsi lasciando qualcun altro alle prese con le stesse difficoltà e con lo stesso dolore. Ritrovare quei volti, quindi, diventa quasi una necessità, una malattia. Un’esigenza (“io li cerco, li cerco sempre”) all’apparenza inspiegabile ma capace di unire investigatori diversissimi tra loro. Gli investigatori potranno guardare in faccia “Kairus”, il “Signore della buonanotte” solo mettendo in discussione molto, quasi tutto, della loro vita personale: Mila Vasquez (già ne “il Suggeritore”, gran libro peraltro), che dovrà affrontare il suo passato e le sue conseguenti difficoltà nell’essere madre, e Simon Berish, sarà costretto ad uscire dalla “vergognosa” routine di poliziotto reietto.
Peccato, pero’, che la spiegazione degli efferati omicidi attorno a cui ruota la prima parte del libro si perda un po’ con il complicarsi della trama ed il susseguirsi dei colpi di scena, fino quasi a farli diventare ininfluenti per lo sviluppo di una storia in grado, comunque, di tenere sempre sulle spine il lettore.