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LDAPOST della domenica. Roma-Milan 0-0. Vallo a sapè..

Sulla partita, rapidamente.

Il fallo di mano evidentemente volontario, in area, andrebbe punito con il rigore. Dopodichè, magari, il rigore lo sbaglio. Oppure vinco 1-0 anche giocando male. Vallo a sape’…

de jong

Rapidamente perché, comunque (e/o purtroppo), il punto non è questo. O almeno, non è solo questo.

Il punto è che lo scudetto si vince con le piccole. E questo Milan, per atteggiamento e rosa, è una piccola (addirittura piccolissima, forse). E questo, dopo quello miracoloso col Sassuolo, è il secondo pareggio in casa, con le piccole.

Il punto è che senza la qualità di Pjanic, rinunciare al Ljajic di questo periodo è un assurdo tattico (soprattutto se poi si sceglie un tridente formato da 3 attaccanti per definizione ma centrocampisti per efficacia in area).

Il punto è che la Roma è sulle gambe, e la rosa fra infortuni, affaticamenti vari, Coppa d’Africa e giocatori estranei al “progetto” (sono autorizzati tutti gli scongiuri davanti alla definizione maledetta), è corta.

E il punto è anche che Garcia, tatticamente, qualcosa deve tornare a inventarsi. E di corsa.

LDAPOST della domenica. Genoa-Roma 0-1. E allora…

Se il pareggio di Manolo Gabbiadini allo Juventus Stadium aveva gettato una secchiata d’acqua fredda sugli ardenti propositi di fuga dei bianconeri, aveva anche gelato gli animi più razionali tra i tifosi giallorossi, coscienti che negli almanacchi della Roma – storicamente parlando – alla definizione “occasione d’oro” si associa spesso “cocente delusione”.

Aggiungiamoci che Garcia si presenta schierando il tridente leggerissimo Gervinho-Ljajic-Florenzi – 3 che, tutti insieme, fanno il cinismo sottoporta di Paolino Poggi (in versione giallorossa) – e l’idea di strappare coi denti un pareggio a Genova diventa un’ipotesi non solo accattivante ma addirittura seducente. E l’inizio non fa che confermare il copione immaginato alla lettura delle formazioni. La Roma viaggia a velocità tripla rispetto al Genoa e il trio d’attacco entra e esce dall’area a piacimento. Se la passano, se la ripassano, se la ripassano ancora. Poi scattano-crossano-stoppano. Cascano. Ariscattano, aricrossano ma non aristoppano. Inseguono, inciampano, lanciano e recuperano. Poi di colpo tirano. Ma addosso a Perin.

Che però, in questo vorticoso turbinare di esterni al posto del centravanti e centrocampisti al posto degli esterni, esasperato, abbatte Nainggolan. Rigore ed espulsione. Lamanna entra con l’occhio spento della vittima sacrificale, Ljajic afferra il pallone e va sul dischetto con l’occhio spento consueto. Il pallone rotola verso la porta lento e praticamente centrale. E le madonne arrivano puntuali, come gli zampognari a Natale.

La Roma, sempre storicamente parlando, si sarebbe dovuta spegnere lì. Se un recupero prepotente di Maicon non avesse consentito a Nainggolan di colpire al volo dal limite dell’area e, in sforbiciata volante, segnare il goal che Osvaldo insegue da una vita e per il quale, da una vita, caca il cazzo (nonostante sia ormai evidente come riesca a tutti). 1-0 e fine primo tempo.

Inizia la ripresa e la Roma, nonostante la superiorità numerica, risulta lenta e leggera. Il tocco troppo morbido di Ljajic, a un metro dalla porta, su un cross pennellato dal sempre più prepotente Maicon, fa venire i brividi ripensando alla collezione di beffe, recenti e passate. E Gervinho e Florenzi steccando l’ultimo tocco mettono il suggello all’elenco dei rimpianti.

Il Genoa si gioca la carta Pinilla. In perfetta simmetria con l’alzarsi della lavagnetta, le mani si abbassano a grattarsi le palle. Perché questo attaccante così generalmente fallito e fallimentare, mentre ai mondiali contro il Brasile all’ultimo secondo dell’ultimo minuto prende la traversa e (scambiando l’automortificazione per dignità) se la tatua pure, contro di noi è una specie di cecchino infallibile.

C’è solo da tenere palla.

E infatti Totti entra per Ljajic. Entra alla fine della partita per addormentare un po’ il gioco. Entra senza fascia da capitano. Entra, e sbaglia tre palloni su tre. A ‘sto punto m’aspetto l’invasione di locuste, il diluvio universale e, possibilmente, la fine del mondo.

Al 37° c’è posto anche per Iturbe. E’ evidente che Garcia si chieda chi sia quel saccoccione col numero 22 seduto accanto a lui…

Ovviamente pensare di andare via coi tre punti e in tranquillità è pura fantascienza. Il guardalinee si inventa un angolo per il Genoa, e il Genoa segna. Incredibilmente, però, lo stesso babbeo con la bandierina in mano vede il fuorigioco – netto – di Rincon, e sul fischio finale, ci da quello che è giusto.

Loro invece, subito dopo il fischio finale, ce danno un sacco di botte.

Perché per qualcuno abituato a fallimenti, evasioni fiscali, valigette e inibizioni varie, quello che è giusto è comunque un furto.

E allora:

Holebas

LDAPOST della domenica. Roma-Sassuolo 2-2. Lettera aperta all’AS Roma (in rima baciata).

Spett.le AS ROMA

Piazzale Dino Viola, 1 – 00128 Roma

Alla cortese attenzione della Società.

Gent.mi,

per quanto – per carità – ce se possa pure provà, a calcio senza portiere e senza centravanti nun se po’ giocà.

Nemmeno in parrocchia, figuramose in Serie A.

Vedete un po’ che potete fa’.

Cordialità.

LDAPOST della domenica. Roma-Inter 4-2. Per tacer del cane.

Quando te rendi conto che a quel fottuto ultimo secondo di quel fottutissimo ultimo minuto (istante che, da ‘na vita, te manda per traverso le serate) a qualcuno je va sempre l’acqua pe’ l’orto, l’avvicinamento al posticipo con l’Inter non può che essere l’esegesi del rodimento di culo. Intendendo per “rodimento di culo” la somma di una serie di fattori che, da soli, basterebbero per annientare speranze e ambizioni di tifoserie sicuramente più assuefatte al profumo di vittoria. E cioè: vittoria all’ultimo sculatissimo secondo della Juve + ritorno di Mancini sulla panchina dell’Inter + un ex che tuttosommatoalpostodeColemeandavabenepureDodò. Per tacer del cane (avrebbe chiosato Jerome Klapka Jerome se Osvaldo avesse giocato alla fine dell’Ottocento).

Se poi dopo essere andato in vantaggio grazie agli strappi di Ljajic e Gervinho prendi il goal del pareggio su un calcio d’angolo lento, un salto ancora più lento e un colpo di testa lentissimo, beh le madonne con cui m’ero già approcciato alla partita, da gementi preci diventano rombi da Formula 1.

E se al goal della vita di Holebas (che, con la sua storia strappalacrime di ragazzo-padre destinato ad una vita da falegname, si candida già a sostituire Tarzan Annoni in quello spicchio di cuore che ogni tifoso riserva ai terzini tutti grinta-e-piedi-di-ghisa) segue una rocambolesca deviazione su un tiro che sarebbe andato fuori, il rombo da Formula 1 dei vaffanculo diventa quello di un Boeing in fase di decollo. Ha pure cominciato a piovere e, si sa, piove sempre sul bagnato. E infatti il tiro (che sarebbe andato fuori) era proprio del cane sopracitato, con conseguente corollario de mitraje, mani alle orecchie e dita sulle labbra.

Ma siccome il ragazzo non ha certo nel quoziente intellettivo la sua dote migliore ed è piuttosto incline ad autocelebrarsi con esultanze smodate a risultato tutt’altro che acquisito, mentre ancora se sistema il codino e s’alliscia i baffetti, Gervinho e Totti portano a ballare tutta la difesa dell’Inter (il capitano improvvisa pure un passo di breakdance e da terra regala un assist che almeno ¾ de Serie A non riuscirebbe a fa’ in piedi e a gioco fermo) e Pjanic fa 3-2.

Che poi la questione non sta nemmeno nel goal o nell’assist.

Perché al 30° del secondo tempo Totti fa, come fosse la cosa più naturale del mondo, un cambio di campo di 40 metri. Preciso. Anzi no, precisissimo. Neppure. Perfetto. Ecco, sì. Fa un cambio di campo di 40 metri perfetto. Talmente perfetto che se a questo mondo la dignità valesse qualcosa, se esistesse ancora il concetto di amor proprio, ecco…allora Osvaldo se sarebbe dovuto levà gli scarpini, la maglia e, imboccata l’uscita (possibilmente di servizio), dedicare ad un’onesta vita da musicista di strada.

Sarebbe finita qui, se la Roma non avesse inspiegabilmente deciso di non affondare il colpo decisivo. Iturbe in due minuti sbaglia due goal che, visti i recenti precedenti, fanno venire brutti pensieri. Gervinho mette in mostra tutto il suo repertorio, quello fatto da giocate a velocità supersonica da fenomeno e tocchi goffi e maldestri alla Fabio Junior.

Chi invece il tocco ce l’ha davvero da fenomeno è Pjanic. Punizione, e a posto così.

Finisce 4-2.

Anzi, no. Finisce che Osvà, la mitraja falla su sto c***o.

LDAPOST della domenica. Atalanta-Roma 1-2. Un campaccio.

Quello di Bergamo è un campaccio. Da sempre.

Un campo dove per vincere devi schierare la squadra tipo, avere i giocatori in piena forma e la rosa tra cui scegliere deve essere quella più forte della tua storia. E comunque, anche in quel caso, i sapienti giardinieri di scuola longobarda al posto dell’erba t’acchittano una pozza di fango profonda 20 cm (e meno male che tra fenomeni e giocolieri c’avevi pure Tommasi e Delvecchio).

Un campo dove, se sei nel pieno di un ambizioso proyecto asturiano calcistico-educativo ne prendi talmente tanti che dopo mezz’ora te fanno il torello.

Un campo dove, di norma, se gli insulti che ti becchi si fermano al quarto grado di parentela l’atmosfera ti sembra tutto sommato accogliente.

Insomma, le premesse per passare il sabato pomeriggio sacramentando ci stavano tutte. Se poi a queste premesse aggiungi che sulla fascia sinistra schieri evidentemente un figurante di Cinecittà che, più che a un arrembante terzino del Chelsea, sembra ispirarsi alle movenze di uno zombie di “The Walking Dead”, ecco che sacramenti, madonne e santi vari si materializzando dopo 40 secondi. 1-0.

Manco il tempo di mettersi comodi e stai sotto di risultato e di gioco. L’Atalanta sembra il Bayern Monaco, Raimondi e Maxi Moralez sembrano Robben e Gotze. Cole, invece, continua a sembra’ sempre e solo Cole. E questo basta. I primi 10 minuti sono di terrore puro, e fanno diventare le suggestioni di mercato una interminabile lista della spesa in cui si elencano centrali di difesa come pacchi di pasta, terzini come etti di prosciutto e portieri come verdure.

Siccome però l’Atalanta non è il Bayern Monaco, Colantuono non è Guardiola ma soprattutto Raimondi e Maxi Moralez col cazzo che sono Robben e Gotze, passo dopo passo, minuto dopo minuto, contrasto dopo contrasto, la Roma riconquista campo e gioco.

Iturbe quando prende palla tra le linee e parte è incontenibile. Lo fermano solo con la più alta espressione comunicativa bergamasca: il muro a secco. Nel senso che lo murano a suon di calci e je timbrano – a secco – i polpacci coi tacchetti. Ljajic trova, in un colpo solo, la posizione in campo, la rapidità di giocata, il goal (e che goal!) e l’assist per Nainggolan. 1-2.

Solo che, mentre ancora te stai a gusta’ il vantaggio, il controllo della partita e il terzo fischione nell’aria, laddove non arriva la strategia di Colantuono arriva la Croce Rossa. Torosidis va fuori per infortunio e in campo ci va un ragazzino. I terzini sono ufficialmente finiti e compilando la lista della spesa si cominciano a guarda’ pure le offerte 3×2.

In un amen i patemi riprendono, gli errori aumentano e i terrori crescono. Astori scivola, De Rossi incespica e De Sanctis s’addorme. La palla balla in area di rigore un paio di volte, ma entrambe le volte rotola fuori a rimbalzella. E al sollievo s’aggiunge pure un senso di giustizia perchè sì, il Rigamonti sarà pure un campaccio, però no, l’Atalanta davvero non è il Bayern Monaco.