Se il pareggio di Manolo Gabbiadini allo Juventus Stadium aveva gettato una secchiata d’acqua fredda sugli ardenti propositi di fuga dei bianconeri, aveva anche gelato gli animi più razionali tra i tifosi giallorossi, coscienti che negli almanacchi della Roma – storicamente parlando – alla definizione “occasione d’oro” si associa spesso “cocente delusione”.
Aggiungiamoci che Garcia si presenta schierando il tridente leggerissimo Gervinho-Ljajic-Florenzi – 3 che, tutti insieme, fanno il cinismo sottoporta di Paolino Poggi (in versione giallorossa) – e l’idea di strappare coi denti un pareggio a Genova diventa un’ipotesi non solo accattivante ma addirittura seducente. E l’inizio non fa che confermare il copione immaginato alla lettura delle formazioni. La Roma viaggia a velocità tripla rispetto al Genoa e il trio d’attacco entra e esce dall’area a piacimento. Se la passano, se la ripassano, se la ripassano ancora. Poi scattano-crossano-stoppano. Cascano. Ariscattano, aricrossano ma non aristoppano. Inseguono, inciampano, lanciano e recuperano. Poi di colpo tirano. Ma addosso a Perin.
Che però, in questo vorticoso turbinare di esterni al posto del centravanti e centrocampisti al posto degli esterni, esasperato, abbatte Nainggolan. Rigore ed espulsione. Lamanna entra con l’occhio spento della vittima sacrificale, Ljajic afferra il pallone e va sul dischetto con l’occhio spento consueto. Il pallone rotola verso la porta lento e praticamente centrale. E le madonne arrivano puntuali, come gli zampognari a Natale.
La Roma, sempre storicamente parlando, si sarebbe dovuta spegnere lì. Se un recupero prepotente di Maicon non avesse consentito a Nainggolan di colpire al volo dal limite dell’area e, in sforbiciata volante, segnare il goal che Osvaldo insegue da una vita e per il quale, da una vita, caca il cazzo (nonostante sia ormai evidente come riesca a tutti). 1-0 e fine primo tempo.
Inizia la ripresa e la Roma, nonostante la superiorità numerica, risulta lenta e leggera. Il tocco troppo morbido di Ljajic, a un metro dalla porta, su un cross pennellato dal sempre più prepotente Maicon, fa venire i brividi ripensando alla collezione di beffe, recenti e passate. E Gervinho e Florenzi steccando l’ultimo tocco mettono il suggello all’elenco dei rimpianti.
Il Genoa si gioca la carta Pinilla. In perfetta simmetria con l’alzarsi della lavagnetta, le mani si abbassano a grattarsi le palle. Perché questo attaccante così generalmente fallito e fallimentare, mentre ai mondiali contro il Brasile all’ultimo secondo dell’ultimo minuto prende la traversa e (scambiando l’automortificazione per dignità) se la tatua pure, contro di noi è una specie di cecchino infallibile.
C’è solo da tenere palla.
E infatti Totti entra per Ljajic. Entra alla fine della partita per addormentare un po’ il gioco. Entra senza fascia da capitano. Entra, e sbaglia tre palloni su tre. A ‘sto punto m’aspetto l’invasione di locuste, il diluvio universale e, possibilmente, la fine del mondo.
Al 37° c’è posto anche per Iturbe. E’ evidente che Garcia si chieda chi sia quel saccoccione col numero 22 seduto accanto a lui…
Ovviamente pensare di andare via coi tre punti e in tranquillità è pura fantascienza. Il guardalinee si inventa un angolo per il Genoa, e il Genoa segna. Incredibilmente, però, lo stesso babbeo con la bandierina in mano vede il fuorigioco – netto – di Rincon, e sul fischio finale, ci da quello che è giusto.
Loro invece, subito dopo il fischio finale, ce danno un sacco di botte.
Perché per qualcuno abituato a fallimenti, evasioni fiscali, valigette e inibizioni varie, quello che è giusto è comunque un furto.
E allora: