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La piazza.

Ieri ho seguito la chiusura della campagna elettorale della candidata del M5s a sindaco di Roma.

A scanso di equivoci (non dovrebbe esserci bisogno, ma meglio chiarire visti i tempi) non la sostengo, non ne condivido i contenuti (sparuti e confusi, peraltro), non ne stimo i modi, non ne apprezzo la sottomissione a contratti e penali.

Mi interessava osservare la “piazza” (diecimila, ventimila, o millemilionidimila che fossero). Non mi riferisco ai Meetup, alle reti cittadine, ai volontari del Movimento. Avversari politici di cui non condivido i contenuti, spesso non capisco i modi, non apprezzo la sottomissione ad un proprietario per metà entità web e per metà icona soprannaturale, ma a cui riconosco dedizione ed impegno. Mi riferisco a quella mescolanza di anti-tutto a cui il sistema costruito da Grillo e Casaleggio si rivolge e che, quotidianamente, accudisce e pasce. Anti-casta, anti-politica, anti-pd, anti-renzi. Adesso anche anti-benigni e anti-riforme. E quindi (anzi, di conseguenza) anti-migranti, anti-negri, anti-froci, anti-zingari. A cui non viene fatto mancare un link quotidiano su Renzi asfaltato e sulla Boschi distrutta da condividere tutti!!!, da alternare alla disinformazione xenofoba dei siti di bufale. Affinché il rancoroso malessere di chi non è in grado, o non vuole distinguere ReBubblica da “la Repubblica”, il CoRiere dal “Corriere della Sera”, il Massaggio da “Il Messaggero” e il Fattone dal “Fatto quotidiano” diventi, in un click, moneta sonante per i paladini della loro (presunta) libertà.

Era a loro che si rivolgevano ieri le sentenze del “Dibba”, le roche grida della Taverna, l’incomprensibile soliloquio di Fo, gli occhi sgranati della Raggi. Interessati ad ingrassare le fila di quel coro di “contro” più che a far luce sull’impegno di altri. Perché facendo la voce più grossa, urlando più forte, anche una dittatura può essere spacciata per libertà.

Due giganti e una corte dei miracoli.

Sono in ritardo. “In 1/2 ora” con il confronto in vista delle primarie del centrosinistra per il candidato Sindaco a Roma è andata in onda domenica, lo so. Ma l’ho vista solo oggi.

Comunque, io sostengo Roberto Giachetti. Ed è acclarato. Ma il punto, stavolta, non è il “chi è meglio di chi”. Perché per conoscenza della città, capacità di ascolto e proposte di intervento, Giachetti e Morassut sono due giganti. Il punto è che, per una volta che il Pd ha in campo due giganti (sembrava incredibile anche solo immaginarlo dopo il disastro-Marino e Mafia Capitale), i due Roberto sono costretti a sgomitare tra un’improbabile corte dei miracoli che, per garantirsi un po’ di visibilità, un pugno di voti o una poltrona (più probabile uno strapuntino), fa dell’assurdo, della superficialità e della “cojonella”, i cardini della campagna elettorale. Quindi, tra l’affettata marzialità del Generale Rossi di Centro Democratico, l’esacerbante qualunquismo del “Senatore” Pedica e l’infantile confusione del movimentista Mascia (che per di più, non contento, si presenta pure in tv con un Orso di peluche, casomai si rimanesse di colpo a corto di prese per il culo) il 6 marzo gli elettori di centrosinistra saranno chiamati a scegliere uno dei due giganti di prima. Bella cosa le primarie. Magari però andrebbero leggermente rivisti i principi di ammissione…

Non ho citato la candidatura di Chiara Ferraro per un motivo preciso. Ne capisco il principio, la città deve essere pensata e amministrata anche (e soprattutto) in funzione di chi deve fare i conti con un handicap. Ma non ne condivido il modo. Mi lascia perplesso la fermezza con cui il papà l’ha coinvolta in questo secondo tentativo (era già stata nella Lista Civica per Ignazio Marino) e non mi piace l’esposizione traumatica a cui la ragazza è sottoposta senza poter sapere se, e fino a che punto, le sia gradita (perchè oh, stare vicino a uno che dice castronerie brandendo un orso di peluche cos’è se non un trauma?).

Oh, poi, per quanto in questo periodo si possa “diffidare” della politica, il confronto una certa rilevanza politica, oggettivamente, ce l’aveva, si parla pur sempre di Roma Capitale e del partito del Premier. Per questo credo avrebbe meritato un giornalista un po’ più preparato e meno astioso della Annunziata. Che però, c’è da dire, con i suoi a Tor Sapienza arrivano gli immigranti [testuale] e succede quello che succede, Chiara fa il minestrone, Renzi è andato al potere senza essere stato votato e nessuno di voi vuole vincere in quella corte dei miracoli ci stava proprio bene.

Per chi vuole “farsi del male”:

http://www.rai.tv/dl/replaytv/replaytv.html?day=2016-02-28&ch=3&v=634228&vd=2016-02-28&vc=3#day=2016-02-28&ch=3&v=634228&vd=2016-02-28&vc=3

Contraddizioni e coerenza.

Sui diritti bisogna essere partigiani. Bisogna scegliere da che parte stare e in quale direzione andare, anche a costo di contraddire “la Ditta”. Di contraddire “il Capo”. O il Parroco. Anche, e soprattutto, a costo di contraddirsi. Di discutere, di dividersi, di lacerarsi.

E sui diritti, è partigiano questo Partito Democratico che non è mai “abbastanza di sinistra”, “zeppo di democristiani”, che “guarda sempre più a destra”. Che però non ha accettato il compromesso di una “leggina” stitica fatta con le palle al piede Alfano e Giovanardi (do you remember i D.I.CO. della coppia Pollastrini/Bindi?).

Che per una battaglia di civiltà ha cercato i voti del M5s. Quelli del “voteremo (o non voteremo) sempre per il bene del paese”. E che infatti così faranno. Per il paese degli Adinolfi, delle scritte sul Pirellone, dei fascismi. Quando si dice, la coerenza.

In viaggio, Gerusalemme e Palestina #1.

Le mura parlano e raccontano storie. E’ probabilmente la considerazione più banale (perlomeno tra le più banali) che storici o archeologi possano fare. In alcuni casi, poi, non raccontano solo storie, ma raccontano la Storia. E’ così per quelle imponenti che cingono la città vecchia di Gerusalemme, e per i segni lasciati dalla guerra di indipendenza sulla Porta di Sion. Per le pietre dell’antica Gerico nel Tell es-Sultan e per quelle dell’inespugnabile fortezza di Masada. Parlano di Dio i blocchi di pietra bianca del muro del pianto, i marmi della moschea El-Aqsa, le maioliche della Cupola della Roccia e il travertino di Betlemme della Basilica della Natività. Parlano di una strage i resti romani del Palazzo di Erode. Per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina non si può non lasciare la parola alle mura.

Per raccontare il mio viaggio a Gerusalemme e in Palestina, quindi, non posso non cominciare da un muro.

Betlemme, Bansky

Da questo mostro di cemento armato, filo spinato e militari. Alto fino a nove metri (nove metri, 2 volte il muro di berlino) con terminal e porte di sicurezza (i “check-point” spacciati per “controlli di sicurezza” ma utilizzati come una vera e propria frontiera) che immettono nella città da tutti i punti cardinali.

Un muro che accerchia Betlemme e la divide da Gerusalemme. Che divide, quindi, i luoghi che il cristianesimo venera come quelli della natività di Gesù da quelli della morte e della resurrezione. Che divide “chirurgicamente” due città così indissolubilmente legate da essere – per credenti, atei, religiosi o laici – una l’imprescindibile appendice dell’altra.

Betlemme, il muro.

Un muro che nel troppo superficiale immaginario comune separa gli israeliani dai palestinesi. Ma che, in realtà, separa quartieri e città. Palestinesi da palestinesi. Che smembra famiglie, divise – in tantissimi casi – dal colore della Hawiya, la carta d’identità. Verde quella di chi risiede nei Territori occupati; Blu quella di chi risiede a Gerusalemme e che, pur non avendo passaporto, può frequentare scuole, ospedali, servizi sociali. Marcare differenze nelle differenze, un metodo vecchio come il mondo. Divide et Impera, d’altronde.

Un muro, le cui porte dettano i ritmi delle giornate. Come le preghiere. Che nel migliore dei casi, fin dall’alba costringe a file di ore per i controlli di sicurezza chi, permesso di lavoro e documento alla mano, da Betlemme si deve spostare a Gerusalemme. Oppure, in caso di chiusura – decisa in modo assolutamente unilaterale – a mettersi in cammino per ricominciare da capo e mettersi in fila in un altro varco, in un altro check point.

Rientro in Palestina

Allora, per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina, non posso non cominciare dalla guida Khalid. Che ci porta in giro nei dintorni di Betlemme e ci chiede se è bello dormire a Gerusalemme (distanza 8 – otto!! – chilometri). Lo chiede a noi. Perché a lui, palestinese cristiano, non è permesso. A Gerusalemme ci può andare solo a Natale o a Pasqua. E deve tornare la sera. Sempre che le porte del muro siano aperte. Sennò, cristiano o no, “sticazzi” del tuo pellegrinaggio.

Per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina, non posso non cominciare da Sofia che, il muro, vuol farcelo vedere per bene. Dall’alto. E quando si accorge che a mia moglie è venuta la pelle d’oca (perchè le donne sono più sensibili, io avevo il voltastomaco) le dice “pensa che questa è la mia vita”.

Per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina non posso non cominciare dalle opere di Bansky. Che non abbelliscono. Perché niente può abbellire una sfregio così grande. Ma di certo rendono chiaro, evidente, come questo muro sia uno strumento d’attacco. Non di difesa.

Betlemme, Bansky (Instagram)

Che poi, che per raccontare un viaggio a Gerusalemme e in Palestina si dovesse cominciare da un muro, non era neanche difficile immaginarlo. Basta andare nella basilica di Santa Maria in Trastevere e guardare il mosaico dell’abside. “Hierusalem”, si legge, accanto alla rappresentazione di una città cinta da torri e da mura. Appunto.

Da una porta in queste mura escono sei agnelli. E dall’altra parte del mosaico, da Betlemme – appunto – ne escono altri sei. Tutti si spostano  simmetricamente e contemporaneamente verso il centro, verso l’Agnus Dei. Sempre che i check-point siano aperti.

gerusalemme (1)

betlemme (1)

mosaico absidale

Gerusalemme e Palestina, Luglio 2015.

La pubblico.

La pubblico, per me.

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Per fermarmi a pensare. Mi sembra quasi di sentirlo, il rumore del mare. E quello dei passi attutiti dalla sabbia. Mi sembra di vederli, i gesti cauti di chi ha dovuto recuperare quel corpicino. Preso in braccio. Una mano a sostenerne le gambe e l’altra, si può intuire, a sorreggerne il viso. La pubblico perché sembra una “Pietà” questa foto, nell’accezione meno artistica e più disperata.

La pubblico per impormi di pensare a lui. Aylan Kurdi. Che con la mamma e il fratello più grande Galip provava a raggiungere la Grecia, da Kobane.

La Grecia. Quel paese che poteva pure fallire, e tanti saluti.

Da Kobane. Quella città che ha resistito, combattuto e respinto l’Isis mentre noi, l’Occidente, ci scandalizziamo ad ogni gola tagliata, ad ogni tempio distrutto, ma poi rimaniamo a guardare.

La pubblico per fermarmi a pensare a un bambino, uno qualsiasi, di tre anni. Per cui Renzi, Merkel, Junker, Euro, sono solo parole senza senso. Ma che conosce bene miseria, morte e guerra.

La pubblico per me. Ma se si volessero fermare a pensare anche quelli che si sgolano a chiedere ruspe, respingimenti e cannoni, quelli del rimandiamoli a calci a casa loro, quelli del je pagamo pure er telefonino, quelli del gli diamo 100 euro al giorno mentre gli italiani muoiono di fame, quelli del li mettono nelle ville e negli alberghi a 4 stelle, quelli dei link da notixweb, non sarebbe tempo sprecato.

Perché Aylan Kurdi, morto annegato mentre cercava di raggiungere la Grecia da Kobane, ci dà ancora una volta la possibilità fermarci a pensare, e di smettere di fare schifo.