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Attualità di una vecchia sconfitta.

Il breve e appassionato libro di Ermanno Rea può essere considerato una parentesi del precedente Mistero Napoletano. Uno scritto approfondito, a metà tra l’inchiesta e il giallo, sulla storia di Guido Piegari, fondatore e intellettuale di riferimento del Gruppo Gramsci (attivo a Napoli dal 1940 al 1954) che nelle appassionate riunioni nell’aula IV della Facoltà di Lettere dell’Università di Napoli, discuteva ed elaborava idee dissonanti da quelle del PCI di Togliatti e, soprattutto, da quelle del Movimento per la Rinascita di Giorgio Amendola.

Ermanno Rea, Il caso Piegari, Feltrinelli.
Ermanno Rea, Il caso Piegari, Feltrinelli.

Piegari, in un documento del 1954, tratteggia quella di Amendola come un’organizzazione che si proponeva come autonomo centro di coordinamento di tutte le lotte e le rivendicazioni nel Sud Italia, quasi “concorrenziale” con il PCI nazionale, una sorta “mina vagante” che minacciava la compattezza dello stato al solo scopo di creare un vero e proprio blocco – al sud – di potere autonomo. Quello elaborato dal Gruppo Gramsci, invece, era un meridionalismo basato sull’integrazione politica dell’Italia nel segno dell’egemonia operaia alleata ai contadini e ai sottoproletari meridionali. Gli stessi termini – come mette giustamente in evidenza Rea – della polemica tra chi auspica un’Europa politicamente compatta (unica politica estera, unico centro decisionale) e chi la vuole disunita, frammentata in tanti stati ognuno dei quali intento esclusivamente al proprio tornaconto. Secondo l’autore fu anche lo stile del documento – lungo e francamente illeggibile – a spingere Togliatti ad avallare la tesi amendoliana (o meglio, a non prestare la dovuta attenzione alle istanze del Gruppo Gramsci) emarginando e condannando senza appello, fino all’espulsione dal partito, il “pazzo” Piegari.

Ho trovato particolarmente significativa – e in un certo senso “chiarificatrice” – la trascrizione di una risposta data all’autore da Ugo Feliziani, legato a Piegari da un’intensa amicizia, alla domanda su cosa fosse e volesse il Gruppo Gramsci: cerco di spiegarmi con un esempio. Quando uscì il film Senso di Luchino Visconti a me piacque molto. A gli altri, invece, piaceva Pane, amore e fantasia. La cultura comunista di allora tendeva insomma a rimuovere tutto quanto era oggetto di approfondimento e di ricerca a livello europeo solo perché non rientrava nel filone illuministico, non si iscriveva nella tradizione razionalistica.

La regola dell’equilibrio

Con “La regola dell’equilibrio” Carofiglio torna a dar voce al suo celebre personaggio, Guido Guerrieri. L’avvocato barese appassionato di pugilato è chiamato a difendere un suo vecchio compagno di studi, ora magistrato affermato e “in carriera”, accusato di corruzione.

Gianrico Carofiglio, La regola dell'equilibrio, Einaudi.
Gianrico Carofiglio, La regola dell’equilibrio, Einaudi.

Per quanto molto lontana dalle atmosfere da legal-thriller dei precedenti “capitoli” della serie (su tutti, per me, svetta “Testimone inconsapevole”), la penna di Carofiglio tiene sempre viva la storia, senza rinunciare alle lunghe e dettagliate (a volte eccessivamente) digressioni tecnico-legali, tratteggiando un’atmosfera diversa, più “raccolta”. Alla suspense si sostituisce, progressivamente, la riflessione personale, intima. Proprio per questo, però, le riflessioni di Guerrieri (attuale e intensa quella sull’ipocrisia del mondo giudiziario e, in un certo senso, della giustizia in sé) e i discorsi (o gli “scontri”) con l’amico-sacco che pende e oscilla al centro del soggiorno di casa risultano tormentati come delle vere e proprie indagini.

Non è un capolavoro, sia chiaro. Ma è sicuramente un libro da leggere, in cui spiccano le scenografie cittadine (gli scorci serali, la luce soffusa e accogliente di una libreria per nottambuli, una finestra affacciata sulle luci dell’aereoporto) che diventano, pagina dopo pagina, un luogo intenso e ideale.

Incalzante, angosciante, perverso: Uccidi il Padre.

Sandrone Dazieri abbandona il noir – e il suo personaggio, il “Gorilla” – per il thriller. E quella che realizza con “Uccidi il Padre” è una prova d’autore di alto livello, capace di evitare le rocambolesche soluzioni e le esagerazioni che spesso in Italia caratterizzano (e “americanizzano” negativamente) il genere.

Sandrone Dazieri, Uccidi il Padre - Mondadori.
Sandrone Dazieri, Uccidi il Padre – Mondadori.

La trama è sempre credibile nonostante i drammatici (e agghiaccianti) eventi che danno il via all’azione. Colomba Caselli è un’ufficiale di polizia, in aspettativa dopo che un’operazione da lei condotta in Francia è finita tanto tragicamente da essere chiamata “il disastro”. Dante Torre è l’ex “bambino del silo”: rapito a 6 anni e rinchiuso in un granaio fino all’adolescenza quando, nell’unica distrazione del suo aguzzino, è riuscito a scappare. E “Il Padre” è l’orrore da fermare, l’ex carceriere di Dante tornato a rapire bambini e a lasciare, dietro di sé, una striscia di sangue.

Ma quella di “Uccidi il Padre” non è solo una caccia al serial killer. È un’indagine tra coperture, inganni, segreti, complotti militari e esperimenti farmaceutici senza scrupoli. È una lotta serrata contro il tempo. È la ricerca, per i protagonisti, di risposte che facciano luce sugli angoli più bui delle loro vite.

Risposte che arrivano, ma che l’autore  – perversamente, viene da pensare – trasforma in nuove domande.

Una mutevole verità.

Una mutevole verità, Gianrico Carofiglio, Einaudi.
Una mutevole verità, Gianrico Carofiglio, Einaudi.

Il personaggio è interessante. Il maresciallo Pietro Fenoglio ha tutte le qualità del buon investigatore e quella malinconia di fondo che lo rende, agli occhi degli altri personaggi e a quelli – ipercritici – dei lettori appassionati del genere, “una brava persona”. Piemontese trapiantato a Bari, appassionato di musica classica e letteratura, a disagio con le armi, capace di ascoltare senza pregiudizi. Un personaggio “delicato” in un contesto “ruvido”, “di sangue”.

Detto questo, la storia che lo stesso Carofiglio presenta come “la cosa più vicina al poliziesco classico che abbia mai scritto”, non è un granchè. Il colpevole si intuisce subito, e anche il movente è piuttosto facile da immaginare. E per un “poliziesco classico” non è il massimo. Non ho apprezzato, poi, la citazione dell’Avvocato Guerrieri (il personaggio più famoso dell’autore). Una sorta di cameo finale, ma inutile ai fini della trama.

 Insomma: carino, ma nulla di più. Mi aspettavo di meglio.

Il telefono senza fili.

I personaggi e i luoghi sono sempre gli stessi. Toscana, località “Pineta”. Massimo, il proprietario del “Barlume”. E Ampelio, Pilade, Aldo e Gino, i quattro vecchietti (anzi, “vecchiacci”) che tra battute, commenti più o meno riferibili, partite a carte e a biliardo, passano sulle sedie del Bar talmente tanto tempo da considerarlo quasi di loro esclusiva proprietà.

Marco Malvaldi, Il telefono senza fili, Sellerio.
Marco Malvaldi, Il telefono senza fili, Sellerio.

Intorno a loro si susseguono omicidi, occultamenti, truffe, suicidi e raggiri, come solo nella Cabot Cove di Jessica Fletcher. Ma proprio l’equilibrio sottile tra il giallo (alla “Montalbano”, per intenderci) e la serialità è una delle caratteristiche che apprezzo maggiormente delle storie, e della prosa, di Malvaldi. Attenzione al particolare, dunque. All’enigma, alla struttura portante di ogni giallo che si rispetti (vittima-movente-colpevole), ma anche all’uso sdrammatizzante del dialetto, del linguaggio colloquiale, delle dinamiche “da bar” (appunto!) che fanno sorridere sempre e, a volte, proprio ridere di gusto.

Queste storie (Il telefono senza fili come La briscola in cinque, Il gioco delle tre carte, Il re dei giochi e La carta più alta) “dissetano”. Non hanno la ricercatezza dello champagne, ma neanche la grossolanità industriale delle bibite in lattina. Sono come un bicchiere d’acqua frizzante fredda in un pomeriggio afoso d’estate: rinfrescano, e gratificano.