I personaggi e i luoghi sono sempre gli stessi. Toscana, località “Pineta”. Massimo, il proprietario del “Barlume”. E Ampelio, Pilade, Aldo e Gino, i quattro vecchietti (anzi, “vecchiacci”) che tra battute, commenti più o meno riferibili, partite a carte e a biliardo, passano sulle sedie del Bar talmente tanto tempo da considerarlo quasi di loro esclusiva proprietà.

Intorno a loro si susseguono omicidi, occultamenti, truffe, suicidi e raggiri, come solo nella Cabot Cove di Jessica Fletcher. Ma proprio l’equilibrio sottile tra il giallo (alla “Montalbano”, per intenderci) e la serialità è una delle caratteristiche che apprezzo maggiormente delle storie, e della prosa, di Malvaldi. Attenzione al particolare, dunque. All’enigma, alla struttura portante di ogni giallo che si rispetti (vittima-movente-colpevole), ma anche all’uso sdrammatizzante del dialetto, del linguaggio colloquiale, delle dinamiche “da bar” (appunto!) che fanno sorridere sempre e, a volte, proprio ridere di gusto.
Queste storie (Il telefono senza fili come La briscola in cinque, Il gioco delle tre carte, Il re dei giochi e La carta più alta) “dissetano”. Non hanno la ricercatezza dello champagne, ma neanche la grossolanità industriale delle bibite in lattina. Sono come un bicchiere d’acqua frizzante fredda in un pomeriggio afoso d’estate: rinfrescano, e gratificano.