Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi che amo asfaltato er Genoa, co’ quer laziale che fa er duro, ma siccome è biancazzuro in fin dei conti, sta solo a rosicà. Ah, la la la la la la”
Il 20 Febbraio 1996 Bruce Springsteen, ospite del Festival di Sanremo, ammutoliva gli spettatori presenti al Teatro Ariston e incantava i telespettatori cantando, con il solo accompagnamento della sua armonica e della sua chitarra, “The ghost of Tom Joad”. Erano passate da poco le 21, e io la ascoltavo per la prima volta. Da quella sera non ho piu’ smesso, perchè “The ghost of Tom Joad” non è solo una delle ballate piu’ belle di Springsteen, è una delle ballate piu’ belle in assoluto. Con la quale – grazie ad una musica essenziale, la voce cruda ed un testo ispirato al romanzo “Furore” di Steinbeck – il Boss schiaffeggia in pieno volto quella boghesia indifferente che, con la pancia piena, si atteggiava a protagonista del New World Order di George Bush sr. Mom, wherever there’s a cop beatin’ a guy, wherever a hungry newborn baby cries, where there’s a fight ‘gainst the blood and hatred in the air, look for me, Mom, I’ll be there. “Dovunque c’è un poliziotto che picchia un ragazzo, dovunque c’è un neonato che piange di fame, dovunque si combatte contro il proprio sangue e si respira odio, cercami, mamma, io saro’ lì”.
High Hopes, Bruce Springsteen featuring Tom Morello, 2014
Il 14 gennaio 2014, quello schiaffo in piena faccia non ha perso forza. Anzi, si è trasformato in una raffica di pugni nello stomaco. Pugni scagliati dalla voce cruda del Boss – sempre la stessa – e dagli assoli della chitarra di Tom Morello. Pugni che, strofa dopo strofa, diventano sempre piu’ violenti e sempre piu’ attuali. Wherever there’s somebody fightin’ for a place to stand, or a decent job or a helpin’ hand, wherever somebody’s strugglin’ to be free, look in their eyes Mom you’ll see me. “Dovunque c’è qualcuno che deve lottare per un posto dove stare o un lavoro decente o una mano amica, dovunque c’è qualcuno che combatte per essere libero, guarda nei suoi occhi, mamma: mi vedrai”.
7’34” di rabbia, di lotta, di passione.
7’34” di grande, grandissimo rock.
E’ molto difficile pensare che persone che si occupano di salvaguardia del patrimonio artistico italiano possano trasformarsi in un gruppo di ribelli arrabbiati. Per riuscirci bisognerebbe nominare una serie di Ministri dei Beni Culturali che, se si fossero trovati nella Firenze del 400, avrebbero impedito il Rinascimento. Bisognerebbe far cadere nel vuoto, fischiettando distrattamente, i moniti del Presidente della Repubblica. Bisognerebbe creare una classe di burocrati talmente grigi e talmente rigidi da impedire anche alle idee migliori (e magari economiche) di svilupparsi. Bisognerebbe avere a disposizione 2 milioni e mezzo di euro per “la cultura” e destinarli ai tirocini di 500 giovani: un tozzo di pane in cambio di un reale (quantificato e organizzato) sfruttamento lavorativo. Appunto.
Parafrasando Il testo della canzone “Kunta Kinte” di Daniele Silvestri, potremmo dire che “l’unico miracolo politico riuscito a questo governo e’ avere fatto in modo che gli schiavi si siano parlati e organizzati”. E infatti stamattina, archeologi, archivisti, bibliotecari, catalogatori, storici dell’arte, restauratori, funzionari pubblici e dirigenti di aziende private si sono parlati, organizzati e riuniti a Roma, in Piazza del Pantheon. Per dire, appunto, #500NO al Mibact. [Galleria fotografica]
Per dire NO al bando “500 giovani per la cultura”, di cui si e’ parlato – e ho parlato – abbondantemente, e alle successive modifiche apportate dal Ministero dopo le aspre critiche ricevute (chiaro segnale di come fosse stato scritto superficialmente e frettolosamente. E sarebbe opportuno che qualcuno se ne assumesse la responsabilita). Per dire NO, quindi, ad una visione della “formazione” come speranza di una successiva “sanatoria” (con conseguente miracolosa assunzione). Visione che ha creato, e crea, una Pubblica Amministrazione “della scorciatoia” e non un esempio di legalità e riconoscimento del merito.
Per dire NO all’immobilismo della politica e chiedere l’impegno del Governo e del Ministro per la creazione di condizioni favorevoli all’innovazione del settore (e nel settore).
Per chiedere che si voti senza indugi la proposta di legge Orfini-Ghizzoni per il riconoscimento delle professionalità operanti nei Beni Culturali, cancellando, dopo 10 anni, l’orrore della legge 14/1/2004 che le equipara alle professioni che non necessitano di alta formazione accademica. Nonostante sia stato ritirato l’appoggio dai parlamentari del M5s (..e qui si dovrebbero fare molte e aspre considerazioni politiche).
Per chiedere che il Miur imponga agli altri Ministeri e alla Pubblica Amministrazione il riconoscimento delle figure già formate.
Per chiedere un radicale (e comunque tardivo) cambiamento nelle politiche di investimento sui Beni Culturali. Affinché nei grandi progetti di restauro del patrimonio storico-artistico e archeologico, una percentuale dei finanziamenti venga destinata al coinvolgimento dei singoli professionisti, delle cooperative e delle piccole aziende nelle fasi di studio, ricerca ed analisi. E non solo, quindi, alle grandi aziende di appalto edilizio.
Per chiedere, quindi, che si dia finalmente sostanza e respiro ad una politica culturale sempre piu’ in ritardo rispetto all’Europa ed alle necessità dell’Italia. Attraverso proposte concrete e dirette, attraverso un auspicabile dialogo fra chi il settore è chiamato a dirigerlo e chi a farlo funzionare e “vivere”. Proprio per questo mi ha lasciato perplesso l’intervento (che ho trovato esasperatamente antagonista) della rappresentante del Teatro Valle Occupato. Bella realtà romana, per carità. Ma perché un intervento a favore della lotta, dell’autodeterminazione e contro la politica, in una manifestazione che, invece, proprio alla politica chiedeva soluzioni (politiche) su punti molto ben delineati?
E poi, poi c’è il Ministro Bray. Coi suoi “cinguettii”. A manifestazione in corso eccone uno in cui esprime la “condivisione della protesta e il suo impegno a portare le ragioni dei manifestanti al governo”. Praticamente condivide la protesta contro se stesso. Ma, ovviamente, non si dimette.
Solo che mentre la Juventus interpretava alla perfezione il capolavoro di Kubrick “Arancia Meccanica”, la Roma si arrabattava nella parte di un personaggio dei comici poliziotteschi degli anni Settanta. Perché, mentre gli undici di Conte entravano in campo già perfettamente calati nelle parti di Alex, Pete, Dime e Georgie, il metodo Stanislavskij non funzionava per i giallorossi. Che invece di Serpico e dell’ispettore Callaghan, finivano per interpretare “Venticello, all’anagrafe Bertarelli Franco”. Uno che le pizze le prendeva dar Mondezza, figuriamoci dai “Drughi” (quelli di “Arancia Meccanica” intendo, non quelli in curva). Così, i bianconeri iniziavano la loro serie di ultraviolenze sorseggiando Lattepiu’ e i giallorossi cercavano strenuamente di opporsi urlando a squarciagola “Tze-tze!”. Di fatto, i mai sufficientemente odiati rivali, dopo aver aspettato educatamente il fischio d’inizio (sai com’è, lo stile Juve lo impone), ci hanno messo all’angolo del ring e hanno iniziato a brutalizzarci. E manco a dire che “almeno un po’ te la sei giocata”, perché nei minuti iniziali, quelli che facevano ben sperare, quelli in cui Totti e Ljajic hanno prodotto l’unica (peraltro sufficientemente stitica) occasione da goal, ogni contrasto, ogni scatto, ogni scontro faceva presagire il peggio. Toccante (al limite dell’umanitario) il tentativo di Pjanic di fermare fallosamente Pogba, terminato con il risultato del bosniaco a rotolare per metri dopo l’impatto e il francese a chiedersi quale fastidiosa zanzara l’avesse sfiorato.
E con queste premesse non c’è da stupirsi quando, come in un noioso replay di quanto avvenuto negli ultimi due anni, Vidal insacca a mezzo metro dalla linea. E nemmeno quando Bonucci, lasciato completamente solo da un irriconoscibile Castan, segna in scivolata volante come nel migliore degli shaolin soccer. Avrebbe persino fatto ridere la goffa respinta di mano sulla linea dello stesso Castan se non fosse avvenuta dopo un batti e ribatti di testa in area, con i giocatori della Juve a esibirsi in numeri da foche e quelli della Roma immobili a naso all’insu’ come i bambini davanti agli acrobati del circo. Avrebbe fatto ridere se non fosse stato fischiato il rigore. Se non lo avesse segnato Vucinic. E se, oltretutto, non ci avesse ridotto in 9. Già in nove. Perché nel frattempo De Rossi, a coronamento di una prestazione degna del peggior Tomic, si era prodotto in un intervento da codice penale su Chiellini ed era stato espulso. Nulla da eccepire sul colore del cartellino, per carità. Se non fosse che nel primo tempo, quando lo stesso Chiellini aveva deciso di amputare la caviglia di Ljajic, il cartellino estratto fosse stato quello giallo (“e con mille scuse da parte del sig. arbitro”, “un caro abbraccio alla signora”, “cordialissimi saluti a casa” e gentilezze varie).
Insomma, una gran bella serata di merda. Un incubo. Lo stesso di due anni fa. Lo stesso dell’anno scorso. Con la differenza che quest’anno, qualche motivo per sperare che sia solo un episodio c’è. E allora mettiamoci il ghiaccio sulla testa, una bistecca sugli occhi pesti. E speriamo.
Domani andro’ a votare alle primarie del Partito Democratico. Si, lo so, ancora. Dal 2012 ad oggi ce ne sono state tante, tra nazionali, locali e interne al partito. E forse, un utilizzo così continuativo dello “strumento” primarie puo’ anche ottenere un effetto contrario risetto a quello desiderato. Annoiando, Allontanando. Pero’, stavolta, il momento è diverso. L’occasione è diversa. Le necessità sono diverse. Infatti le primarie sono aperte a tutti, nonostante si scelga il segretario del partito, e non direttamente il candidato premier di una piu’ ampia coalizione.
E questa è una magnifica occasione per allargare la discussione intorno (e sulla) politica. Sia del Partito Democratico che, in generale, del paese e del governo. Per coinvolgere, interessare, in certi casi anche interrogare, i delusi dalla politica. I delusi di cui le recrudescenze fasciste del M5s sono un sintomo. I delusi dal centrosinistra postprodiano. Quello di Amato e D’Alema, di Veltroni, fino ai 101. Ma anche i delusi dal centrodestra berlusconiano. [NDR. Coinvolgere, interessare, interrogare sulla politica anche persone di centrodestra non è sinonimo di “aprirgli le porte del partito”. Piccola, ma necessaria, precisazione ad uso e consumo di chi ancora giudica le persone in base alla provenienza politica e non in base alle sensibilità, agli interessi, alle opinioni, giuste, sbagliate, faziose o incazzate che siano]
E’ una magnifica occasione per avviare, quindi, un cambiamento dell’approccio alla politica. Per poter davvero cambiare l’Italia (che è di tutti, non di uno).
E’ anche una magnifica occasione per costruire un Pd (e sarebbe ora!) dove essere ex di qualcosa sia una “caratteristica”, un attributo in piu’, non un fattore dominante.
E’ una magnifica occasione per costruire un Pd dove una visione del mondo diversa (magari un tantino piu’ moderna in materia di lavoro e politiche economiche, ad esempio) integri i principi e gli ideali propri del centrosinistra. Integri, non sostituisca.
E’ una magnifica occasione per costruire un Pd che non si collochi automaticamente in una posizione di subalternità a Berlusconi (come è stato fino ad oggi). Che non sia guidato da chi ha fatto parte per anni, magari nell’ombra, di quella classe dirigente che di Berlusconi ha fatto le fortune o che dell’antiberlusconismo ha fatto l’unica ragione di vita (vita politica, s’intende..).
E, last but not least, è anche una magnifica occasione per costruire un Pd che stia “antipatico” all’antipatico per eccellenza, quello coi baffi.
Per tutte queste magnifiche occasioni, io domani votero’ Matteo Renzi.