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#500schiavi – l’arrogante elemosina del Mibac.

Con un bando del 6 dicembre, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo ha disposto l’avvio di una procedura concorsuale pubblica per la selezione di 500 giovani da formare, per un anno, nelle attività di inventariazione e digitalizzazione del patrimonio culturale. Una bellissima opportunità, sembrerebbe.

Leggiamo i requisiti necessari, art. 2 del bando. Si selezioneranno 500 laureati, con 110/110 e con buone conoscenze di inglese. Giusti requisiti che premiano il merito, sembrerebbe. Andiamo avanti. Under 35. Insomma…il Mibact conferma la tendenza per cui che in Italia, sopra i 30 anni, e quindi (se in regola con esami e tesi) ben dopo la fine del percorso di studi, sei ancora considerato un giovane da formare. Soprassediamo e andiamo avanti.

Modalità di svolgimento e durata del programma formativo (art. 5). Stage di 1 anno (12 mesi). Il candidato può assentarsi, senza interruzione dell’indennità di parteciazione al programma, per motivi personali (20 giorni), gravi motivi familiari (3 giorni), donazione di sangue (1 giorno). L’assenza per motivi diversi sarà considerata ingiustificata e comporterà una riduzione dell’importo dell’indennità prevista, così come un’assenza per malattia superiore ai 30 giorni. Le festività riconosciute sono: tutte le domeniche, 6 gennaio, Pasqua (che poi, cari amici del Ministero, non è già compresa nelle domeniche?), il lunedì dopo Pasqua (aulica definizione di “pasquetta”), 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1 novembre, 8 dicembre, 25 dicembre e 26 dicembre. L’impegno orario sarà compreso tra 30 e 35 ore settimanali. Ah, e in ogni caso non è previsto il buono pasto. Cavolo – si potrebbe esclamare a prima vista – un grande impegno, però nonostante tutto un anno di lavoro vero e proprio! A prima vista, però. Perché il bando specifica: il programma formativo non costituisce in alcun modo un rapporto di lavoro subordinato e quindi non sono applicabili le normative di legge previste per i lavoratori subordinati.

Andiamo ancora avanti, art 6: indennità di partecipazione al programma formativo. Ai candidati selezionati è corrisposta un’indennità di partecipazione, al lordo, di 5000 euro annui, comprensivi della quota relativa alla copertura assicurativa.

Quindi ricapitolando e traducendo. Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo ha pubblicato un bando che prevede 1 anno di lavoro (30/35 ore settimanali, un giorno di riposo settimanale, ecc.) a 416,00 € al mese. Proprio la soglia oltre la quale i contributi da versare sarebbero a carico del datore di lavoro. In questo modo i tirocinanti, qualora riuscissero ad avere altri introiti (non riuscendo maldestramente a sopravvivere con 5000 euro all’anno) dovrebbero versare anche quelli di tasca propria. Questo sempre qualora non si incappi – tutti gli scongiuri sono autorizzati – in una malattia un po’ più complicata e più lunga.

E’ una strada, quella intrapresa dal ministero, che trovo volgare. Irrispettosa della dignità dei professionisti. Arrogante nei confonti dei loro sacrifici. Perché questo è un archeologo o uno storico dell’arte o un bibliotecario o un archivista di 30 anni: un professionista, non un giovane da formare. Immorale, perché – di fatto – ottiene #500schiavi in cambio di elemosine e, ancora una volta, non propone una soluzione per riorganizzare e rendere produttive le professionalità già al suo interno. O per stabilizzare anche solo una parte di quelli che, questo percorso di “tirocinio” (o, semplificando, di precariato), lo hanno già intrapreso tempo addietro. Eppure i 2.500.000 euro potevano essere utilizzati per finanziare startup, per borse di studio, corsi di aggiornamento, implementazione nei ruoli tecnici del Ministero, sostegni alle imprese.

Invece si è scelta una strada volgare. Perché se questo bando lo avesse promosso un privato, sarebbero stati gli stessi dirigenti, gli stessi politici, gli stessi burocrati a gridare allo scandalo.

Chissà, tra un’inaugurazione e l’altra, cosa ne pensa il Ministro Massimo Bray?

Ps. ah, per chi non ci credesse, il bando è qui.

Considerazioni su Roma (“lo veeedi ecco Mariiino”).

Traendo spunto da questo articolo del Corriere della Sera, ieri ho iniziato su Facebook una interessante discussione con un mio amico sull’operato del sindaco in questi primi mesi di governo della città. Ne è venuta fuori una considerazione sulle aspettative (personali e generali) che sono state la base della sua elezione e che, mi fa piacere riportare anche sulle pagine del blog (provando a dargli una forma un po’ più leggibile..). D’altronde esprimere un giudizio tranchant dopo soli 6 mesi di consiliatura sarebbe sbagliato, così come lasciarsi andare ad una celebrazione tout court quasi si fosse ancora sull’onda della vittoria elettorale. Fiducia e perlessità, dunque. Qualche apprezzamento e, contemporanemente, qualche delusione (tanto per mantenermi in contraddizione continua anche con me stesso). Peraltro, il tema dell’articolo del Corriere, la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale della città, mi sta particolarmente a cuore, sia come cittadino che come “addetto ai lavori”. La chiusura al traffico privato di una parte di Via dei Fori Imperiali è stato uno dei fiori all’occhiello della campagna elettorale del Sindaco. Ed in effetti si è arrivati al primo step di questo processo nei modi e nei temi previsti. Pur ritenendo indispensabile un urgente intervento di revisione della mobilita’ nella zona, credo sia stato sbagliato iniziare con il centro storico. Avrei preferito si fosse iniziato avviando progetti ugualmente ambiziosi ma piu’ “decentrati”, magari con la pedonalizzazione permanente di tratti stradali nelle periferie. Sia perchè credo che sia necessario favorire la mobilità alternativa anche in punti della città meno “famosi” ma, paradossalmente, più abitati e frequentati. Sia per evitare di trasmettere l’idea di un interesse rivolto solo al “bel salotto” del centro storico, di richiamarsi cioè a quei tratti distintivi del veltronismo su cui Alemanno aveva costruito parte della sua vittoria elettorale. Allo stesso tempo ritengo che i passi che si stanno muovendo per la riorganizzazione interna di uffici comunali, burocrazia e municipalizzate oltre ad essere un importante segnale di modernizzazione marchino davvero la differenza con cio che è stato prima, con la parentopoli di recente memoria. Ci vorrà tempo, sicuramente più di quello previsto e dichiarato in campagna elettorale (e anche questo è un errore, Roma aveva, ed ha, bisogno di fatti) ma ci stiamo allontanando dal “buco nero” (in tutti i sensi) in cui era precipitata Roma durante l’amministrazione Alemanno.

Non c’è una livella per tutti.

A morte ‘o ssaje ched’e”…e’ una livella.

 ‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo, 
trasenno stu canciello ha fatt’ ‘o punto 
c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme: 
tu nun t’he fatto ancora chistu cunto?

Questo scriveva Totò nella celebre ‘A livella. E’ vero? In parte.

Siamo tutti uomini, mortali. Impotenti di fronte alla morte. Ma non uguali. E non è un discorso religioso, una tiritera di peccati, buone azioni, pentimenti eccetera. E’, a pensarci bene, un discorso di Storia. Perché il giusto e lo sbagliato sono due categorie che esistono, e devono esistere. E con loro la giustizia e l’orrore. Categorie che la Storia analizza, contestualizza, che addirittura può arrivare – ed è arrivata – a mettere in discussione, ma che non cancella mai.

Così ha fatto Roma, che non ha cancellato niente. Via Tasso, via Rasella, le Fosse Ardeatine. E sopportando la faccia strafottente di Priebke durante gli arresti domiciliari, le sue passeggiate ai giardinetti, addirittura lo champagne per il suo compleanno, ha sconfitto il carnefice affidandosi a quella giustizia a cui la Storia arriva sempre. Perché un colpevole è sempre un colpevole, anche se anziano. Un boia è sempre un boia, anche da morto.

Erich_Priebke_in_servizio_presso_l'ambasciata_tedesca_di_RomaE quel boia morto, anche se a 100 anni, è quello di questa foto, con la sua linda divisa da ufficiale nazista. E le mani macchiate di sangue ben nascoste dietro la schiena.

Nel 2006 Luis Sepulveda scriveva su “la Repubblica” queste parole a proposito di Pinochet. Credo calzino a pennello.

Vorrei essere in Cile tra i miei cari e condividere con loro la spumeggiante allegria di sapere che finalmente finisce l’odiosa presenza del vile che ha mutilato le nostre vite, che ci ha riempito di assenze e di cicatrici. Smette di respirare un’aria che non gli appartiene, di abitare in un paese che non merita, tra cittadini che per lui non provano altro che schifo e disprezzo. Ma muore, e questo è quello che importa.

Nessun perdono, mai.