Per Totti, adesso, ci vorrebbe un film. Per raccontare quella storia che tutti i bambini col pallone sotto al braccio hanno sognato e sogneranno, ci vorrebbe Hollywood. Ci vorrebbe uno di quei film con i colpi di scena, l’azione, i drammi, la suspence e le risate. E con il lieto fine.
Ma qui, Hollywood, non c’è.
Qui ci sono gli striscioni e i cartelli. Gli Io sto con Totti (peraltro, se ci tenete a farvi inquadrare da Sky, almeno non fate errori d’ortografia), gli hashtag #SiamoTuttiTotti, la solidarietà pelosa di qualche d’accatto, lo sdegno ipocrita degli opinionisti tv e la rabbia vomitata dai microfoni di qualche radio.
Qui ci sono i ruspanti Totti nun se tocca!. E lo scrosciante c’è solo un capitano di una curva tornata, per caso o per magia, a farsi sentire (e vedere).
E tutto questo questo non è cinema.
E’ un accanimento inspiegabile. Con cui si sacrifica il campione e la sua classe cristallina sull’altare dello slogan, della battaglia, dell’autodeterminazione. Ma è anche l’espressione di una paura inconscia. Come l’abbraccio disperato di un bambino al salvagente che dovrebbe proteggerlo da una piscina come fosse il mare in tempesta. Perché una Roma senza Totti, è vero, un po’ fa paura. Come il futuro. Ma forse adesso siamo grandi abbastanza per imparare a nuotare.