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Roma-Milan 1-1. Al buio, e con la saccoccia bucata.

E’ cominciata bene, con l’occasione di Sadiq dopo pochi secondi (bravo Donnarumma, per carità, ma i miracoli so’ altri…). E’ proseguita meglio, con il piattone di Rudiger per il vantaggio.

E poi?

E poi, basta. Partita finita. O meglio, è finita la partita della Roma. Come se i giochi fossero fatti, l’obiettivo raggiunto, l’avversario sconfitto, i tre punti in saccoccia, ed il “click” invocato in conferenza stampa da Mister Garcia avesse riacceso – finalmente – la luce sulla squadra.

Solo che tra l’occasione di Sadiq e il goal di Rudiger, i minuti passati erano 4, mica 90. E allora daje a spinge ‘st’interruttore. Se sei moroso e t’hanno staccato la luce…sempre al buio rimani. E pure con la saccoccia bucata.

Per questo negli altri 86, di minuti, è bastato un Milan ordinato, semplice, consapevole delle proprie limitate risorse tecniche, per mettere in scacco una Roma lenta, macchinosa e incapace di uscire con una trama organizzata dalla propria metà campo. Una Roma noiosa. Perché questo è il punto. E’ talmente allo sbando, talmente priva di identità, di personalità, di spina dorsale, che ‘sta Roma annoia. Annoiano i lanci per Gervinho. E annoia il testardo incaponirsi dell’ivoriano in giocate che (voglio essere gentile) non appartengono al suo bagaglio tecnico. Annoiano i passaggi indietro e le verticalizzazioni fuori misura di De Rossi. E annoia pure il suo essere costretto a giocare in una zona nevralgica del campo in condizioni fisiche precarie. Annoia una formazione raccattata di giocatori acciaccati, fuori condizione e isterici. E annoia pure quel rassegnato adagiarsi sulle loro stesse precarie condizioni fisiche, sul loro vacillante stato di forma, sulle loro isterie. Annoia l’aggrapparsi di un allenatore confuso e stordito al carisma, alla storia, alla classe di un capitano di 40 anni, ancora infortunato o comunque “ in recupero”. Buttato in campo nella confusione generale come un totem salvifico per cercare di sopire i fischi e le pernacchie, assordanti anche in uno stadio semi-deserto.

Una Roma che annoia. Ma che fa pure molto incazzare.

Chievo-Roma 3-3. Chi il carattere non ce l’ha, non se lo può dare.

Che sarebbe stata dura, e che nell’aria ci fosse puzza forte di fregatura, lo sapevo.

Lo sapevo sullo 0-2 e con tanti minuti davanti.

Lo sapevo quando Manolas ha presidiato l’area piccola con la stessa convinzione di Trotta, e Szczesny ha cercato il pallone a mano piatta come se dovesse schiacciare una mosca.

Lo sapevo quando ho visto entrare Dainelli, con la sua faccia triste da arbitro anni ’80.

Lo sapevo al 71’, quando dopo il goal di Iago Falque mancavano “solo” venti minuti.

Lo sapevo all’81’, quando ho visto entrare in campo Pepe. Che pensavo avesse dato l’addio al calcio un paio d’anni fa.

Lo sapevo all’85’, ancora prima che calciasse la punizione.

Era dura, e c’era puzza forte di fregatura. Lo sapevo.

Quello che ancora non sapevo è quanto, per questa Roma, Garcia sia perfetto.

Con la sua incapacità di accorgersi dell’impresentabilità psicologica di Manolas (giustificatissima, peraltro, viste le “questioni personali”), di quella fisica di Salah (corre in protezione sulla caviglia creandosi, di conseguenza, fastidi muscolari. Chiunque faccia un po’ di sport sa di che parlo) e di affidarsi ad altro che non siano i lanci per Gervinho.

Con la sua ignavia. Con quella sua atavica mancanza di volontà nel rivoluzionare la squadra, nel provare a mostrare (magari proprio approfittando delle enormi difficoltà di organico e conseguente irrilevanza del risultato) cosa tatticamente vorrebbe mettere in pratica, o potrebbe mettere in pratica, se avesse uomini, fiducia, garanzie, possibilità.

E’ l’alibi perfetto, Garcia, per questa società.

Per questi dirigenti da strapazzo, che se si prendessero la responsabilità di confrontarsi per una volta con un allenatore con le palle (Spalletti, Capello, o chi per loro) si vedrebbero sbattere in faccia ‘sta rosa sopravvalutata di presunti campioni, di giocatori in odor di pensione, di giovani promettenti, di gioielli del vivaio. Si vedrebbero sbattere in faccia l’assenza di programmazione sul mercato e la ricerca esasperata della plusvalenza. Si vedrebbero sbattere in faccia la mancanza di piglio, di decisione e – perché no? – di arroganza.

E vedrebbero gettare all’aria questo “sistema-Roma” perfetto, dove ci si inalbera nelle dispute sul valore della maglia sudata, sulla romanità “un tanto al chilo” di chi deve indossare la fascia di capitano, sul colore della divisa da Champions immemore della tradizione, e dove intanto ci si rassegna alla fatal possanza del destino avverso.

Ma come il coraggio anche il carattere – Manzoni mi perdonerà – chi non ce l’ha non se lo può dare. E quindi rimangono lì, nascosti dietro un allenatore inadeguato che invoca “palla lunga a Gervinho”, a blaterare di obiettivi, di risultati, di programmi, di futuro.

Poi c’è anche chi il coraggio lo deve comunque trovare. Per cercare una verità che – è vero – con la “frivola serietà” del calcio non ha niente a che fare. Ma a cui magari proprio quei beceri, malati, esagitati, esagerati tifosi tendono la mano. Almeno loro.

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L’unica cosa bella di ieri.

Napoli-Roma 0-0. Eroici.

Gyomber

Questo volenteroso ragazzo si chiama Norbert Gyömbér.

Norbert è slovacco, ha 23 anni, è alto 1.90m e fa il difensore centrale. O a volte, ma molto a volte, in nazionale, il mediano. Nonostante le sue leve lunghe e la sua andatura dinoccolata al 37’ del secondo tempo è stato schierato come terzino destro. Per limitare Insigne, e poi Mertens.

Ebbene, questo volenteroso ragazzo, preso d’infilata a destra, a sinistra, sopra e sotto, fa parte di quel manipolo di eroi che ieri ha tatticamente annichilito lo spettacolare Napoli di Sarri.  Asfissiandone la manovra a centrocampo e azzerandone la capacità realizzativa.

Il tutto, senza mai superare la propria metà campo.

A posto così.

Torino-Roma 1-1. Sugli eufemismi, sui sofismi e sui purismi.

Un brutto risultato, per usare un eufemismo. Figura retorica abituale nella descrizione delle partite della Roma, per sostituire (per scrupolo sociale, per riguardo morale o – molto spesso – per semplice amor proprio) una altisonante raffica di madonne con affermazioni più attenuate.

E un brutto risultato è stato, quello di ieri. E’ vero. Ma che, nonostante abbia le sembianze di una prestazione tatticamente soporifera, tecnicamente scialba e caratterialmente opaca, non può non essere attribuito ad un inconfutabile scempio arbitrale. A volersi produrre in un inequivocabile sofismo. A voler difendere, con un ragionamento cavilloso e capzioso, ma dall’apparenza coerente, l’inesorabile trascinarsi di una squadra senz’anima. Sopravvalutata e, cosa ancor più grave, sopravvalutatasi.

Ma il risultato di Torino è anche l’ineludibile maschera tragica della Roma. Destino, dicono. Purismo, dico io. Atteggiamento che sovrasta, rifiuta e condanna senza scampo ogni tentativo di scrivere una storia diversa. Dottrina intransigente, che elabora l’ambizione in strisciante minaccia per una rassicurante soccombente integrità. E che ci consegna alla tradizionale sconfitta come fosse una ineluttabile necessità.

Su Roma-Atalanta 0-2. Ma anche su Bologna-Roma e Barcellona-Roma.

Sì, vabbè. Ma di che parliamo?

Del campo impraticabile di Bologna? Del 6-1 che tanto non conta perché le altre hanno pareggiato? Del salvataggio sulla riga di Cigarini, o del miracolo di Sportiello?

Potremmo parlare del fatto che, nell’anno degli insegnati di calcio (Sarri, Sousa), la Roma è in mano a uno scolaro svogliato. Uno di quelli che, impegnandosi, potrebbe pure andare bene (Juventus, Fiorentina), invece vivacchia. Improvvisa. S’accontenta del minimo indispensabile. E colleziona insufficienze. Una guida tecnica approssimativa e confusionaria che s’innesta “alla perfezione” in un contesto già notoriamente e storicamente bipolare di suo. Ma porca troia so’ partito lasciando la Roma del derby, torno, e me ritrovo quella di Andreazzoli…

O potremmo parlare dell’improvvisazione in attacco degna della seconda Roma di Ranieri (Dzeko che crossa per Iturbe non è un “approccio sbagliato al match”, è un film dell’orrore!). Oppure della disorganizzazione difensiva stile “calciotto del giovedì”.

Ancora, potremmo parlare di come, quando la mossa della disperazione è poro-Sadiq, quel tecnico che in due anni e un po’ ha fatto scappare Sanabria in Spagna e Paredes all’Empoli, ha fatto perdere le tracce di Ponce (prima dell’infortunio) e ha mortificato Uçan, forse tanto astuto non è.

Altrimenti – per carità – potremmo stare a parlare fino allo sfinimento della rosa. Di quanto so’ scarsi Torosidis, Rudiger, De Rossi, Keita, Iturbe e compagnia cantante. Dimenticando che un’impronta di gioco, un’anima di squadra, l’abbiamo vista persino con Kuffour, Kharja, Alvarez e Cufrè…

Seriamente. Di cosa parliamo?

Fosse per me, col cuore in mano, parlerei di Luciano Spalletti. Ma siccome a volte è meglio avere più testa che cuore, parlerei anche di Fabio Capello. Sì, proprio lui. Fabio Capello. Allenatore fino alla fine del campionato e poi direttore plenipotenziario dell’area tecnica. Così magari potremmo provare a non rassegnarci all’ennesima occasione buttata. Appunto, magari.