Il leader della “Fraternité Musulmane” Ben Abbes, sconfiggendo al ballottaggio Marine Le Pen, è eletto Presidente della Repubblica.
Sotto la spinta di questo “nuovo Napoleone”, Algeria, Tunisia, Marocco, Libano ed Egitto in breve tempo si avvicinano e aderiscono all’Unione Europea e i partiti tradizionali, ormai al tracollo, scelgono di non contrastare questo progetto di “ricostituzione dell’Impero romano” sotto il segno dell’Islam. Scegliendo di sottomettersi. E sottomettendo il mondo occidentale alla dominazione finanziaria e culturale dei ricchi Emirati.
Uscito in Italia il 15 gennaio, a pochi giorni dalla strage di Charlie Hebdo, è stato annunciato – e “pompato” (con tanto di presentazioni annullate per ragioni di sicurezza, nella spietata logica di un marketing privo di remore) – come un libro sulla prevaricazione dell’Islam nei confronti dell’occidente.
Non lo è.
E’ un libro sull’opportunismo e sulla debolezza etica degli uomini. Sul rifiuto di solidi principi sociali, professionali, intellettuali e sentimentali.
Il filosofo Michel Onfray (figura molto particolare e discutibile, per la verità), in un’intervista al Corriere della Sera ne ha parlato come di un libro “sulla collaborazione e la fiacchezza degli uomini”. La scelta di questi termini l’ho trovata, pagina dopo pagina, perfettamente calzante. Perchè – per dirla sempre con Onfray – “la sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva”.
Come è arrivata un’organizzazione armata, che appena 3 anni era praticamente sconosciuta, a minacciare il mondo? E – bisogna aggiungere – non solo militarmente. Anche ideologicamente, usando tutti i moderni mezzi di comunicazione (il video della decapitazione del giornalista americano James Foley ha fatto il giro del mondo sulle ali dei social media). Questa domanda è alla base della ricerca di Loretta Napoleoni (saggista e giornalista, considerata tra i massimi esperti di terrorismo internazionale) sull’Isis. Argomento estremamente attuale, purtroppo.
ISIS, lo stato del terrore – Loretta napoleoni – Feltrinelli.
Per l’innegabile complessità e delicatezza, il tema è trattato con estrema cura e, allo stesso tempo, semplicità. Approfondito come un saggio, chiaro come un articolo e scorrevole come un romanzo, le fonti sono riportate in modo chiaro e le loro interpretazioni (così come le opinioni personali) sono sempre ben distinte dalle notizie, dai fatti. Non ha la pretesa di proporre una soluzione,ovviamente. Ma aiuta a capire quanto la questione vada ben oltre la semplice brutalità “militare”.
Mentre i media ci hanno raccontato della proclamazione di un califfato e ci raccontano le decapitazioni dei prigionieri, l’Isis ha conquistato un territorio più vasto del Texas nel cuore del Medio Oriente, dissolvendo i confini creati artatamente dal colonialismo occidentale (impiantando i propri capisaldi territoriali in regioni economicamente strategiche, come le ricche aree petrolifere della Siria orientale) e promuovendosi come vero e proprio potere politico. Legge, ordine e “sicurezza nazionale”, infatti, sono compiti dell’apparato amministrativo del “Califfato”. Come un vero e proprio Stato moderno rispetto alle enclave “premoderne”, retaggio dei ripetuti interventi militari stranieri. E’ anche questa, probabilmente, una delle seduzioni dello Stato Islamico. Una sorta di “contratto sociale”, per dirla alla Rosseau. Un modo, quello di ripristinare attorno a un moderno salafismo antioccidentale la maschera teatrale di uno stato vero e proprio, per ottenere il consenso della popolazione. Convincendola, così, di partecipare alla costruzione di un nuovo ordine politico in Medio Oriente, di una nazione governata dall’onore, di una società contemporanea ma al tempo stesso perfettamente in armonia con al Tawhid, l’unità dei fedeli ordinata da Dio. [Balza agli occhi – peraltro – come, presentandosi in questo modo, la propaganda dello Stato Islamico offra un’immagine politica di sé analoga a quella proposta dai primi sionisti che, negli anni quaranta, si unirono per riconquistare una “patria ancestrale donata da Dio”. NDR] Nel caso del Califfato la religione – e in particolare il concetto di Takfir, apostasia – è l’alibi perfetto per operazioni di vera e propria pulizia etnica. L’eliminazione degli Sciiti garantisce l’appoggio della popolazione sunnita, certo. Ma soprattutto una società etnicamente più omogenea (evitando quindi la possibilità di formazione di fronti di opposizioni “laici” o “moderati”) e la liberazione di risorse economiche da redistribuire ai soldati ed alle loro famiglie. La guerra di genocidio, quindi, è parte di una tattica politica dal respiro ben più ampio di quello brutale e primitivo di decapitazioni e crocifissioni a cui, spesso, si fermano i media.
Quella con l’Isis, quindi, non è e non potrà mai essere un’altra delle tante (e ripetute, e ripetitive) guerre – dirette o per procura – che l’Occidente (in scala più o meno vasta) ha ingaggiato nella zona. E’ invece lo scontro con un’utopia politica: Con un’intuizione potente e per questo seducente anche (o forse soprattutto) per quegli emigrati musulmani che da un condizione di emarginazione dovrebbero integrarsi nella società occidentale.
“Io, l’amore, la musica, gli stronzi e Dio”. Dal titolo potrebbe sembrare solo la biografia (sopra le righe) del giudice (sopra le righe) di X-Factor, un’operazione commerciale ben orchestrata. Il libro, invece, è interessante e coinvolgente.
Marco Castoldi, Il libro di Morgan, Einaudi.
Nonostante la prosa sia – a tratti – eccessivamente verbosa (ma d’altronde se impiega venti minuti a presentare una canzone in un talent..), è una lettura agile. Risulta, alla fine, il tomentato pamphlet di un uomo di cultura dalla sensibilità fuori dal comune. Di un artista. E come molte espressioni artistiche è, allo stesso tempo, un libro confuso e lineare. E mai banale. Né nelle riflessioni filosofiche (da intendersi proprio come dei veri e propri abstract di storia della filosofia), né negli spunti di critica e autocritica, né nei passaggi più pungenti e ironici.
E’ una lettura utile a confermare che le apparenze ingannano.Un libro pieno zeppo di De Andrè. Di Battiato. Di Pavese. Di Beatles e di Wagner. Fatto di musica classica, e ricoperto di Duran Duran, come l’autore. Che ha sicuramente scritto per se stesso. Ma anche per me.
La frustrazione. La frustrazione che provi quando hai un’idea e non hai le parole. La frustrazione di quando hai una parola nella testa e non sai come dirla. Sei a Mosca e non sai il russo. Quello è uno spaesamento che è impossibile da raccontare e mi fa paura.
La tv e la vergogna. Faccio la puntata, poi mi chiudo in casa per tre giorni e spengo il telefono. Dormo, soprattutto. Nel resto del tempo leggo o suono. Non mi rivedo mai. Al quarto giorno c’è sempre qualcuno che mi chiede dov’ero scomparso. “Mi sono vergognato” rispondo. Ed è la verità.
La Lega. Come al solito, il problema è che la Lega Lombarda, proprio perché soffre della propria totale assenza di riferimenti culturali, ogni volta che c’è qualcuno che apre bocca nella propria lingua tradizionale, se ne appropria. Siamo di fronte a gente gnucca come il marmo, che vive nel bosco. L’hanno fatto con la mitologia celtica, trasformandola senza capirla in una specie di gioco di ruolo, volete che non lo facciano con un cantante di cui riescono a comprendere almeno i testi [Davide Van De Sfroos ndr]? Infatti chi ha mai pensato di proporre un film di Kieslowsky a Calderoli? A Calderoli al massimo gli propongo Shining perché è uguale a Jack Nicholson quando va fuori di testa. “Wendyyy..” te lo vedi proprio Calderoli? E’ uguale.
L’Italia. Wagner trova un accordo che colloca nella prima fase del Tristano e Isotta, che in seguito sarà definito Tristan chord. Misterioso, complesso, dirompente. Inesistente prima. Ancora oggi indecifrato. Inventa il Novecento. Mentre Wagner è in Germania, cosa sta succedendo in Italia? C’è Giuseppe Verdi. Noi abbiamo sempre il nostro Gianni Morandi di turno. Wagner che pensa di andare al di là del mondo tonale, e noi Gianni Morandi che scrive: “Me lo prendi papà?” Sempre così. Noi Pausini? Loro Bjork.
Gli artisti. I veri artisti sono belli. Sono le persone più belle che ci siano, però sono pieni di casini. (…)Ho sempre avuto una grande capacità di comunicare senza le parole, anche grazie al fatto di aver avuto come compagno di banco alle elementari un bambino che non solo era sordomuto, ma anche distrofico. (…) Io però con lui ci parlavo, imitavo i suoi versi. Proprio la mia lucidità mi permetteva di stabilire questa relazione con lui. Oggi quando mi capita di incontrare persone “strane”, penso sempre al mio compagno di classe. Provo compassione per loro, ma soprattutto spero che loro provino compassione per me, in un loop di identificazione.
Fuga dal Campo 14 non è una semplice biografia. E’ una riflessione e, al tempo stesso, un atto d’accusa duro e agghiacciante sulla dittatura in Corea del Nord. E’ la storia di Shin Dong-hyuk nato e cresciuto nel “Campo 14”, uno di quei campi di internamento e “rieducazione” su cui solo oggi ha iniziato ad interrogarsi una commissione delle Nazioni Unite.
Oggi ha 32 anni, e da quel lager è riuscito a fuggire 10 anni fa calpestando, nel vero senso della parola, il corpo di un compagno fulminato dall’alta tensione della recinzione.
Blaine Harden, Fuga dal Campo 14, Codice.
Dopo la fuga in Cina ed una prima assistenza ricevuta in Corea del Sud ha iniziato un lunghissimo (e durissimo) percorso di riadattamento alla normalità. Anzi, a quella che noi consideriamo la normalità. Perché Shin è cresciuto senza conoscere nulla del mondo, senza sapere che la Terra fosse tonda. Senza aver mai ascoltato una persona cantare. Senza sapere nulla che non fosse la propaganda del Partito del Lavoro. “Pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello dentro”. Ma se le lacune di conoscenza possono essere colmate grazie ad una curiosità vivace e una grande determinazione, la pelle martoriata dalle cicatrici lasciate delle agghiaccianti torture subite renderà infinito il percorso di recupero, che Shin con coraggio condivide con Organizzazioni ed Associazioni che si occupano di diritti umani per le quali gira il mondo per raccontare la sua storia, testimone vivente degli abomini messi in atto dal 1948 ad oggi, dalle dittature di Kim Il Sung, Kim Jong-il e Kim Jong-un.
Lavorare fino allo sfinimento, tradire i suoi familiari, fare la spia, chinare lo sguardo e sopportare gli abusi delle guardie erano i suoi unici doveri per espiare colpe che non poteva e non doveva nemmeno conoscere. Il crimine che Shin “aveva commesso” era quello di avere uno zio fuggito, negli anni Cinquanta, in Corea del Sud. In Corea del Nord, infatti, è legale incriminare i cittadini in base ai legami di sangue e di parentela grazie ad una legge istituita nel 1972 dal “Grande Leader” Kim Il Sung che recita: “il seme dei nemici di classe deve essere estirpato attraverso tre generazioni”.
Il giornalista Blaine Harden ha messo ordine nei ricordi e nei racconti di Shin senza omettere i particolari più spaventosi, senza coprire – per inutili pietismi – le azioni più aberranti che lo stesso Shin ha dovuto commettere per sopravvivere, e senza mai smettere di ricordare che, in questo stesso momento, altri prigionieri le staranno commettendo. Perché anche l’orrore, non solo la pietà, può contribuire a scuotere l’opinione pubblica da quell’indifferenza che finora è stata la più preziosa alleata della dinastia dei Kim.
Illuminante, a questo proposito, un passo dell’Economist: Forse la portata delle atrocità è tale da anestetizzare l’indignazione. E’ molto più facile ridicolizzare il regime e le pazzie del suo leader piuttosto che affrontare realmente la sofferenza che quel regime infligge alla popolazione. Eppure sappiamo di omicidi, schiavitù, spostamenti forzati di popolazione, torture, stupri: la Corea del Nord commette praticamente ogni atrocità che rientri nella categoria “crimini contro l’umanità”.
Shin, però, continua a parlare e a mostrare, senza pudore, la sua schiena martoriata dalle ustioni e il basso ventre mutilato. Le caviglie deformate dai ceppi per tenerlo appeso a testa in giù durante l’isolamento. Le braccia piegate ad arco per i lavori forzati. Il dito medio della mano destra mozzato come punizione per avere fatto cadere una macchina da cucire. E non smetterà di farlo fino a quando i gulag della Corea del Nord non saranno smantellati e i prigionieri liberati.
Supernotes, Agente Kasper e Luigi Carletti, Mondadori.
La storia vera di uno “007” italiano. Un agente “irregolare” però, prima del Sismi e poi del Ros, protagonista di pericolose operazioni contro il narcotraffico. Un agente sotto copertura dal passato discusso (e discutibile), da giovane legato agli ambienti di destra ma “protetto” da una pericolosa deriva estremista dall’allora procuratore di Firenze Pierluigi Vigna. Quella dell’Agente Kasper è la storia vera dei tredici mesi di prigionia in Cambogia, tra caserme, ospedali-lager e il durissimo “centro rieducativo” di Prey Sar. Una prigionia che però, ufficialmente, per il Governo Italiano non è mai esistita e che l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini ha bollato, in una lettera ai familiari, come “l’arresto di un cittadino italiano residente all’estero in forza di un provvedimento di altro Paese straniero (gli Usa) per riciclaggio e reati fiscali”.
L’unica strada per quel “cittadino”, quindi, era quella di cavarsela da solo.
Ed è la strada che “Kasper” e il giornalista Luigi Carletti ripercorrono, ricostruendo i durissimi giorni della prigionia, i faticosi tentativi dell’avvocatessa Barbara Belli di sensibilizzare la diplomazia sul caso, il drammatico silenzio delle istituzioni, ma soprattutto l’oggetto dell’indagine che fu la causa di tutto: le Supernotes. Banconote da 100 dollari vere ma allo stesso tempo false (same same but different è il modo di dire dei protagonisti), stampate con macchine e clichet “autorizzati” in Corea del Nord con cui l’intelligence americana pagherebbe clandestinamente tutto ciò che ritiene necessario per la sicurezza nazionale (regimi canaglia, rivoluzioni, narcotrafficanti, spregiudicate operazioni sul campo) ma che all’opinione pubblica deve rimanere nascosto.
Scorrevole ma sempre ben circostanziato. In equilibrio tra la biografia e la spy story, ma soprattutto in equilibrio tra la cronaca e la teoria del complotto. Interessante.