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Napoli Ferrovia.

Ermanno Rea, Napoli Ferrovia, Feltrinelli.
Ermanno Rea, Napoli Ferrovia, Feltrinelli.

Una cronaca-diario in odore di romanzo. Un giornalista ottantenne torna a Napoli dopo tanti anni. Dopo quasi una vita. E ripercorrendo alcune tappe della sua storia familiare ne attraversa i quartieri e le strade. E, con essi, quelle trasformazioni (sociali ed urbanistiche) che, dal dopoguerra ad oggi, hanno stravolto, nascosto o casi cancellato la Napoli affacciata sul mare, entusiasta, vitale ed energica. Condivide queste passeggiate notturne con Caracas, cinquantenne di origine venezuelane, ex naziskin in procinto di convertirsi all’Islam. Razzista, anticomunista e antiamericano, ma pronto ad aiutare gli sconfitti e gli emarginati. La ricerca del “cuore” della città diventa così per entrambi un pretesto per condividere momenti della propria storia. Momenti  spesso dolorosi, a tratti disperati. Le storie del giornalista – l’Io narrante, lo stesso Rea –  e di Caracas diventano quindi la storia stessa di Napoli. Le due vite opposte si specchiano nelle contraddizioni della città, nella sua ancestrale bellezza e, allo stesso tempo, nella sua apparentemente inarrestabile decadenza. I racconti che Rea e Caracas si scambiano sono gli stessi di quella Napoli “sedotta” dagli americani nel dopoguerra, quando con l’insediamento a Bagnoli del Quartier Generale del comando dell’Europa Meridionale fu trasformata in una sorta di capitale della “guerra fredda” ma, allo stesso tempo, fu privata delle sue risorse produttive e con esse delle speranze di rinascita. Sono i racconti di quella Napoli a cui interessi politici e criminali hanno rubato il mare e i sogni. Intense, toccanti e accorate sono, per questo, la descrizione e l’invettiva contro la Palazzata Ottieni: nel 1954, il costruttore Ottieni – sindaco l’armatore Achille Lauro con flotta e interessi a genova – costruì l’orrenda barriera di cemento armato alta dieci piani e lunga l’intero fronte mare di piazza Mercato spregiativamente chiamata “palazzata” o anche “muraglia cinese”. L’opera colpì non soltanto per la sua mostruosità urbanistico-architettonica ma anche, e forse soprattutto, per la sua pesante carica simbolica. Il messaggio di quel cemento non ebbe bisogno di interpreti: napoletani, non c’è più mare per i vostri sogni, toglietevelo dalla testa, non vi appartiene più. E sono i racconti di quella Napoli in cui anche la droga sembra fatta arrivare di proposito, per distruggere gli uomini e annientare la città. Per inchiodarla al ruolo di colonia, di terra da prosciugare e poi abbandonare. 

Ma Napoli Ferrovia non è il patetico racconto di una ineluttabile depressione. E’ un viaggio a ritroso nel tempo dolorosamente carico di speranza per il futuro. E’ l’appello a non girare la testa dall’altra parte quando fette sempre più ampie della società sono emarginate. E’ l’invito – accorato – a fare comunità, sempre. Napoli Ferrovia non è solo Napoli, dunque. E’ l’Italia.

Bellissimo.

Per tutto l’oro del mondo.

Un Carlotto vecchia maniera, di cui sentivo la mancanza da un po’.

Per tutto l'oro del mondo, Massimo Carlotto, E/O, 2015.
Per tutto l’oro del mondo, Massimo Carlotto, E/O, 2015.

Una rapina finita in tragedia nel Nord Est, la soluzione apparentemente semplice (l’invasione di zingari e migranti che minaccia la vita degli onesti italiani) cavalcata da politica e opinione pubblica e una vittima, Luigina, di cui tutti sembrano dimenticarsi. Un caso che si svela ben presto nient’altro che una matrioska del cazzo.

Nelle ambiguità di questa storia dura, ancorata all’attualità (anzi saldata all’attualità, se pensiamo alla vicenda di Vaprio d’Adda del mese scorso), con la consueta decisione ed i consueti tormenti, si muovono l’Alligatore, Beniamino Rossini e Max “la memoria”. Uomini liberi, ma dal cuore criminale. Ma Carlotto, in stato di grazia, non racconta solamente. Condivide. Fa in modo che, esattamente all’unisono con i tre personaggi, il lettore possa abbandonarsi – di colpo – ad atmosfere morbide ed avvolgenti. Gli scorci fumosi di un piccolo club, le movenze sensuali di una donna di Jazz, o l’abitacolo di una vecchia Skoda. Atmosfere ovattate e rassicuranti, pur nella loro precarietà. Capaci di accarezzare il cuore, ma non di smussare gli spigoli (né dei protagonisti, né di chi legge).

Poi il Blues, onnipresente. La “musica del diavolo” usata come stordente antidoto alla realtà. A quella disperata promiscuità tra avidità, assenza di scrupoli e menefreghismo che spinge a qualsiasi abominio in nome di tutto l’oro del mondo.

E infine l’epilogo. Di cui non parlerò per una ferma presa di posizione anti-spoiler. Ma che spinge a pensare, e a sperare, di dover tornare presto in libreria.

Check Point.

Jean-Christophe Rufin è uno dei fondatori di Medici Senza Frontiere. Ma Check Point non è un libro su Medici Senza Frontiere. Né un elogio incondizionato dell’impegno umanitario e della cooperazione. Tutt’altro. Rufin – che evidentemente sa di cosa parla – non ne mitiga i limiti e non ne nasconde le eventuali strumentalizzazioni. Che siano personali o, più in generale, politiche.

Jean-Christophe Rufin, Check Point, E/O.
Jean-Christophe Rufin, Check Point, E/O.

Cinque ragazzi della ONG francese Tête d’Or, attraversano in camion gli scenari più tragici del conflitto nella ex Jugoslavia per portare aiuti umanitari in un villaggio bosniaco. Ma i cadaveri, le esplosioni, i “check point”, non stravolgeranno il loro viaggio quanto le amicizie, i rapporti, i tradimenti e gli opportunismi nati – deflagrati, potremmo dire – nelle cabine di guida. Scontri, turbamenti, sentimenti, che li costringeranno ad interrogarsi sulle motivazioni più profonde che li hanno spinti a scegliere l’impegno e ad affrontarne i rischi. E’ questa la forza della storia. Rufin non propone analisi ideologiche o critiche socio-politiche. Non divide in buoni o cattivi. Mostra, senza censure, gli aspetti più intimi dell’impegno umanitario. E, di conseguenza, i suoi limiti. Sembra voler sottintendere un rimpianto per il pionierismo improvvisato e sincero delle prima missioni, indugiando sulle motivazioni più alte, più nobili ma senza sorvolare su quelle più superficiali o utilitaristiche.

Un racconto sincero.

P.s. La copertina è la nota dolente. Per carità, io sono sicuramente esagerato. Ma quelle delle edizioni E/O sono, spesso, davvero meravigliose. Quelle dei libri di Carlotto, ad esempio. O di quelli di Izzo. Ecco, non questa. Che sembra la locandina di una fiction.

La ladra di piante.

Daniela Amenta, La ladra di piante, Baldini&Castoldi.
Daniela Amenta, La ladra di piante, Baldini&Castoldi.

Anna è laureata in psicologia. Assegnista al CNR con sei mesi, di prova, al Dipartimento di Neurofarmacologia. Al concorso le viene consigliato di non partecipare, Guardi signorina questo concorso lasciamolo fare a chi ha una laurea in medicina, verrà anche il suo tempo. Precaria. Anzi, precarissima. Generazione 1000 euro. Un po’ no future, un po’ sticazzi. Abita a Roma, quartiere Monteverde, in una casa dell’anziana e ricca Rita Zunino, coi capelli da fata e la faccia incartapecorita. Affitto rigorosamente in nero. Anna è una ladra di piante. Le ruba di notte dai condomini, dai marciapiedi, impietosita dalle foglie secche, dai rami spezzati, dai vasi troppo piccoli. Le cura e le rianima sul terrazzo, diventato una vera e propria foresta.

Riccardo è un giornalista. Appassionato critico musicale “prestato” alla cronaca nera.  Cronaca spicciola di omicidi, rapine e violenze al posto di Jazz, Rock, Punk e Progressive. Zingari e mafiosi invece di Chet Baker e dei Clash. Ipocondriaco. Separato. Abita a Roma, quartiere Monteverde, in una casa dell’anziana e ricca Rita Zunino, coi capelli da fata e la faccia incartapecorita. Affitto rigorosamente in nero. E terrazza confinante con una vera e propria foresta.

Lanfranco è un informatore della Questura in pensione. Stanco, ma non rassegnato. Solo “un po’ rincoglionito”, secondo la sua badante Irina. Abita a Roma, quartiere Monteverde. Non in una casa di Rita Zunino, ma dell’anziana coi capelli da fata e la faccia incartapecorita conosce bene il debole per il gioco e i debiti.

Tre storie che si incrociano in un quartiere che è, allo stesso tempo, un piccolo paese e una metropoli. Comunità solidale in grado di riunirsi e mobilitarsi per riqualificare Villa Sciarra o “liberare” un gatto lasciato rinchiuso, e indifferente di fronte agli occhi pesti di una ragazza “caduta dalle scale”. Un quartiere specchio di quella detestabile retorica su Roma, “quanto sei bella Roma”, ché Roma è bella solo se la si guarda dagli attici con la vista nei quartieri giusti. […] Una città che non ha salvato il proprio fiume, il proprio mare, la propria memoria e se ne casca a pezzi. E se ne compiace di farsi divorare, di mettersi in svendita, perennemente in saldo, tanto Roma è Roma, ma che ce frega, ma che ce ‘mporta… Retorica a cui qualcuno, però, si ribella. Trovando la musica anche dove non c’è, cercando di salvare un gatto o rubando piante.

I bastardi di Pizzofalcone. Un bel libro.

Una ricca signora trovata morta in casa, tra la sua collezione di sfere di vetro con dentro la neve. Nessun segno di effrazione, nessun sospetto se non il marito – notaio della Napoli bene –  infedele. Se fosse un giallo, sarebbe un giallo di quart’ordine.

Maurizio De Giovanni, I bastardi di Pizzofalcone, Einaudi.
Maurizio De Giovanni, I bastardi di Pizzofalcone, Einaudi.

Ma I Bastardi di Pizzofalcone è un noir vero, intenso. De Giovanni fa in modo che al lettore della trama importi davvero poco. La storia – quella vera – quella che spinge a leggere e magari a rileggere, la detta Napoli. Una Napoli a cui l’autore non fa sconti, ma alla quale non lesina carezze evidenziando le quotidiane e contemporanee sfumature di rabbia ed allegria. Di caos coinvolgente e latente solitudine. Contrasti aspri, che danno luogo a incontri/scontri diretti e fulminanti. La povertà sgraziata di un basso con l’arrogante sfoggio di ricchezza del circolo nautico. La convulsa animosità di un vico con la flemmatica agiatezza di un importante studio notarile. La vita ideale, sognata da tutti, con le miserie e le meschinità e degli uomini. Diverse e uguali in ogni quartiere, in ogni ceto sociale. Su cui l’autore indugia a lungo, senza mai giudicare. Ma senza fornire alibi a nessuno. Neanche ai protagonisti. Quelli chiamati a ricomporre il nucleo operativo del commissariato di Pizzofalcone, nel cuore di Napoli, sono tutto fuorchè eroi nel senso più classico e nobile del termine. Reietti. Scarti. Con le stesse meschinità, le stesse miserie e gli stessi strazi delle strade e dei quartieri che attraversano.

Un bel libro.