Per una personalissima questione di principio, con un’applicazione ossessiva ho letto tutti i libri di Manzini che hanno come protagonista il vicequestore Rocco Schiavone prima dell’inizio della serie tv. E ho fatto bene.
Schiavone è un personaggio fatto di ombre, cupo. Che trasmette un’idea di vuoto, di solitudine, ai limiti della crisi di panico. E’ un personaggio degno di Jo Nesbo. Respingente. Tormentato e silenzioso. Ma nelle pagine di Manzini i silenzi rimbombano come grida di rabbia, come disperate e inconsce richieste di aiuto. Ed è in quei silenzi che la storia di Schiavone, il suo passato, il suo vissuto, si “nasconde” prima di colpire chi legge con la potenza improvvisa e inaspettata di un colpo da KO. Rocco Schiavone, per intenderci, è lontano anni luce dalla melassa radical chic in cui Camilleri ha, ormai da tempo, immerso il commissario Montalbano.
No. La televisione non è, e non può essere, la sua dimensione.
Germano, Lucio, Margherita, Silvia e Stefano sono inseparabili. Germano, il Kapo, fascista, prepotente e manesco. Lucio, arrogante e saccente. Margherita, semplice e affascinante, Silvia, ricca e bellissima. E Stefano, “bello e sano”. Più adatto ad un college americano che a un liceo romano, ingenuo. Affiatati e uniti (apparentemente), sono un gruppo. Ma sono anche un branco. Aguzzini, persecutori spietati di Mirko, il diverso. Lo stupido. L’handicappato. Il debole da deridere e umiliare. Persino da “sacrificare”, facendolo precipitare dal balcone di un albergo durante una gita.
Sarà, anni dopo, una lettera dello stesso Mirko (il vero e proprio protagonista assente) a farli incontrare di nuovo e, in una casa trasformatasi improvvisamente in una Alcatraz inespugnabile, a catapultarli dentro un implacabile processo alle loro azioni, alle loro superficialità, alle loro meschinità. Con uno stile asciutto e diretto e un ritmo incalzante Giovanni Floris evita la melensa retorica anti bullismo rifiutando la dicotomia buono-cattivo. A far definitivamente deflagrare il “gruppo” infatti non è il rimorso verso la vittima, ma l’improvviso e (a loro giudizio) inspiegabile rovesciamento dei ruoli. Germano, Lucio, Margherita, Silvia e Stefano diventano, di colpo, un gruppo di “diversi”. Lontani anni luce da quella mimetica “normalità” nella quale, dopo averla disprezzata, vorrebbero nascondersi e confondersi.
Obbligati a fare i conti, per la prima volta, con il senso di responsabilità. A sentirne il peso. A percepirne, sulla pelle, le sfumature drammatiche. E a decidere se continuare a scapparne o affrontarlo.
90 raccontini divisi in due tempi, da – ovviamente – 45 minuti. “Addio al calcio” è un tentativo curioso, delicato e personale di scovare “letteratura”, epica, poesia nel calcio “quotidiano”. Quello giocato nei parchi e nei campetti di periferia, nei cortili dei palazzi, in piazza, per strada. O magari nei corridoi di casa, con una palla di spugna o arrotolata. Con l’applicazione di cui sono capaci i bambini, assorti, metodicamente impegnati nel cercare di superare, palleggio dopo palleggio, il numero di tocchi prefissato. O, ancora meglio, il calcio giocato fantasticando. Mimando un colpo di tacco e un tiro al volo di sinistro, di notte, al riparo da “occhi indiscreti”, tornando verso casa dopo aver parcheggiato la moto. Due tempi da 45 mini-racconti per raccontare il calcio giocato semplicemente giocando. A qualsiasi età, o nonostante qualsiasi età.
Carino. L’idea più che altro. A volte qualche “minuto” sembra di troppo. Certo, però, a chi non s’appassiona per scarpini, telecronache, maglie, figurine, tornei, calcetti, calciotti, subbutei, calcio-balilla, dopo un po’ ammorba..
Filiz Saybak è nata nel 1982 a Mezri. E’ la più piccola della famiglia. Cresce coccolata da Tekin, il fratello prediletto, tra alberi di noce, pecore al pascolo, racconti e fiabe narrati dalle calde voci dei dengbej, balli spensierati per la festa del Newroz.
Anche Avesta è nata nel 1982 a Mezri. Anche lei è la più piccola della famiglia. Ha scelto il suo nome di battaglia in memoria di Harun, il fratello prediletto, ucciso in montagna dalle bombe e dai proiettili degli elicotteri turchi.
Filiz è diventata Avesta per continuare la lotta di Tekin, diventato, e morto, Harun.
Marco Rovelli, La guerriera dagli occhi verdi, Giunti.
Ma Filiz era già Avesta. Era sempre stata Avesta. Nell’incessante ricerca d’emancipazione, nella orgogliosa resistenza alle imposizioni e alle sanguinarie repressioni del governo turco, nel continuo desiderio di conoscenza e di approfondimento, nell’intensa capacità di mettersi al servizio della comunità, di tradurre il personale in collettivo. Compagna, capace di trasformare in scuola una tenda rammendata a fatica. Di diventare Maestra per i bambini tra gli alberi di Behre, nel campo profughi di Ninive o sotto il sole ardente del deserto iracheno, affinché la comunità non debba mai rassegnarsi “al barbaro che è in noi”.
E Avesta è rimasta sempre Filiz. Trasformando il proprio desiderio di “non lasciare a terra l’arma di Harun” nella difesa di un ideale di libertà e democrazia dalla minaccia di un nemico diverso, per una volta condiviso con l’occidente. Comandante, in grado di combattere gli spietati tagliagole di un califfato teocratico in nome della convivenza pacifica di etnie e religioni diverse. Ma soprattutto donna, determinata a respingere, con i libri e con il fucile, quel “dio” maschio e crudele deciso a rendere ogni donna un fantasma.
Marco Rovelli racconta la storia della guerriera dagli occhi verdi sdoppiando il piano della narrazione. Alternando gli episodi dell’infanzia e dell’adolescenza di Filiz, legati alla formazione della sua coscienza politica, alle vicende della partigiana Avesta. Il libro scorre agile come un romanzo, ma le testimonianze dei parenti di Filiz e dei guerriglieri che hanno combattuto al fianco di Avesta (raccolte direttamente dall’autore nel Kurdistan turco e iracheno) lo rendono una preziosa non-fiction novel, in grado di indicare il cuore della lotta di liberazione del popolo curdo: un paese non può essere libero, un popolo non può sentirsi libero, se le donne non lo sono. Questo è il principio che ha animato la breve vita di una giovane guerriera dagli occhi verdi.
Un thriller debole, una spy story piuttosto scontata.
Il Turista è un serial killer pressoché inafferrabile, in grado di cambiare identità e spostarsi senza mai lasciare tracce utili ad identificarlo. A Venezia il suo primo ed unico errore lo costringe al servizio dei “Liberi Professionisti, un gruppo di spietati mercenari composto da ex agenti delle squadre di intelligence di tutto il mondo.
Massimo Carlotto, Il Turista, Rizzoli.
I dialoghi, eccessivamente impostati, sono poco credibili. Terribili gli “spiegoni” di riepilogo, che neanche a “Un posto al sole”. Assolutamente inutili ai fini del racconto le descrizioni delle perversioni sessuali dei due psicopatici (sì, perché dai Liberi Professionisti è stata ingaggiata anche un’altra serial killer..). Persino il “buono”, l’ex commissario Pietro Sambo, risulta piuttosto stereotipato. Cacciato dalla polizia per colpa della relazione, clandestina, con una vecchia fiamma che lo ha spinto ad accettare una tangente, abbandonato dalla moglie e rassegnato alle giornate sempre uguali scandite dalla colazione al bar e dal lavoro nel negozio di souvenir del fratello. Per ottenere l’agognata riabilitazione accetta di affiancare nella caccia ai Liberi Professionisti proprio quella che fu la sua più dura accusatrice (ovviamente innamorata di lui). Privo sia del cinismo da maudit che dell’empatia dell’eroe, Pietro Sambo rimane un personaggio incompiuto.
L’ambientazione è sicuramente affascinante. Venezia, i canali, la laguna, il contrasto tra il caos dei percorsi battuti dai turisti e la misteriosa quiete della calli più nascoste. Ma paradossalmente contribuisce a lasciare un’impressione complessiva da “Angeli e Demoni”, da “Inferno”. Quella di un thriller nato per il cinema. Di un “capitolo primo” impostato per diventare – presto, e senza troppe difficoltà – una serie.
Vediamola così. Massimo Carlotto, stanco di scrivere noir eccelsi, si è concesso una vacanza. Speriamo sia breve.