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Lui, l’amore, la musica, gli stronzi e Dio.

“Io, l’amore, la musica, gli stronzi e Dio”. Dal titolo potrebbe sembrare solo la biografia (sopra le righe) del giudice (sopra le righe) di X-Factor, un’operazione commerciale ben orchestrata. Il libro, invece, è interessante e coinvolgente.

Marco Castoldi, Il libro di Morgan, Einaudi.
Marco Castoldi, Il libro di Morgan, Einaudi.

Nonostante la prosa sia – a tratti – eccessivamente verbosa (ma d’altronde se impiega venti minuti a presentare una canzone in un talent..), è una lettura agile. Risulta, alla fine, il tomentato pamphlet di un uomo di cultura dalla sensibilità fuori dal comune. Di un artista. E come molte espressioni artistiche è, allo stesso tempo, un libro confuso e lineare. E mai banale. Né nelle riflessioni filosofiche (da intendersi proprio come dei veri e propri abstract di storia della filosofia), né negli spunti di critica e autocritica, né nei passaggi più pungenti e ironici.

E’ una lettura utile a confermare che le apparenze ingannano.Un libro pieno zeppo di De Andrè. Di Battiato. Di Pavese. Di Beatles e di Wagner. Fatto di musica classica, e ricoperto di Duran Duran, come l’autore. Che ha sicuramente scritto per se stesso. Ma anche per me.

La frustrazione. La frustrazione che provi quando hai un’idea e non hai le parole. La frustrazione di quando hai una parola nella testa e non sai come dirla. Sei a Mosca e non sai il russo. Quello è uno spaesamento che è impossibile da raccontare e mi fa paura.

La tv e la vergogna. Faccio la puntata, poi mi chiudo in casa per tre giorni e spengo il telefono. Dormo, soprattutto. Nel resto del tempo leggo o suono. Non mi rivedo mai. Al quarto giorno c’è sempre qualcuno che mi chiede dov’ero scomparso. “Mi sono vergognato” rispondo. Ed è la verità.

La Lega. Come al solito, il problema è che la Lega Lombarda, proprio perché soffre della propria totale assenza di riferimenti culturali, ogni volta che c’è qualcuno che apre bocca nella propria lingua tradizionale, se ne appropria. Siamo di fronte a gente gnucca come il marmo, che vive nel bosco. L’hanno fatto con la mitologia celtica, trasformandola senza capirla in una specie di gioco di ruolo, volete che non lo facciano con un cantante di cui riescono a comprendere almeno i testi [Davide Van De Sfroos ndr]? Infatti chi ha mai pensato di proporre un film di Kieslowsky a Calderoli? A Calderoli al massimo gli propongo Shining perché è uguale a Jack Nicholson quando va fuori di testa. “Wendyyy..” te lo vedi proprio Calderoli? E’ uguale.

L’Italia. Wagner trova un accordo che colloca nella prima fase del Tristano e Isotta, che in seguito sarà definito Tristan chord. Misterioso, complesso, dirompente. Inesistente prima. Ancora oggi indecifrato. Inventa il Novecento. Mentre Wagner è in Germania, cosa sta succedendo in Italia? C’è Giuseppe Verdi. Noi abbiamo sempre il nostro Gianni Morandi di turno. Wagner che pensa di andare al di là del mondo tonale, e noi Gianni Morandi che scrive: “Me lo prendi papà?” Sempre così. Noi Pausini? Loro Bjork.

Gli artisti. I veri artisti sono belli. Sono le persone più belle che ci siano, però sono pieni di casini. (…)Ho sempre avuto una grande capacità di comunicare senza le parole, anche grazie al fatto di aver avuto come compagno di banco alle elementari un bambino che non solo era sordomuto, ma anche distrofico. (…) Io però con lui ci parlavo, imitavo i suoi versi. Proprio la mia lucidità mi permetteva di stabilire questa relazione con lui. Oggi quando mi capita di incontrare persone “strane”, penso sempre al mio compagno di classe. Provo compassione per loro, ma soprattutto spero che loro provino compassione per me, in un loop di identificazione.

Fuga dal Campo 14, l’agghiacciante testimonianza sui lager della Corea del Nord.

Fuga dal Campo 14 non è una semplice biografia. E’ una riflessione e, al tempo stesso, un atto d’accusa duro e agghiacciante sulla dittatura in Corea del Nord. E’ la storia di Shin Dong-hyuk nato e cresciuto nel “Campo 14”, uno di quei campi di internamento e “rieducazione” su cui solo oggi ha iniziato ad interrogarsi una commissione delle Nazioni Unite.

Oggi ha 32 anni, e da quel lager è riuscito a fuggire 10 anni fa calpestando, nel vero senso della parola, il corpo di un compagno fulminato dall’alta tensione della recinzione.

Blaine Harden, Fuga dal Campo 14, Codice.
Blaine Harden, Fuga dal Campo 14, Codice.

Dopo la fuga in Cina ed una prima assistenza ricevuta in Corea del Sud ha iniziato un lunghissimo (e durissimo) percorso di riadattamento alla normalità. Anzi, a quella che noi consideriamo la normalità. Perché Shin è cresciuto senza conoscere nulla del mondo, senza sapere che la Terra fosse tonda. Senza aver mai ascoltato una persona cantare. Senza sapere nulla che non fosse la propaganda del Partito del Lavoro. “Pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello dentro”. Ma se le lacune di conoscenza possono essere colmate grazie ad una curiosità vivace e una grande determinazione, la pelle martoriata dalle cicatrici lasciate delle agghiaccianti torture subite renderà infinito il percorso di recupero, che Shin con coraggio condivide con Organizzazioni ed Associazioni che si occupano di diritti umani per le quali gira il mondo per raccontare la sua storia, testimone vivente degli abomini messi in atto dal 1948 ad oggi, dalle dittature di Kim Il Sung, Kim Jong-il e Kim Jong-un.

Lavorare fino allo sfinimento, tradire i suoi familiari, fare la spia, chinare lo sguardo e sopportare gli abusi delle guardie erano i suoi unici doveri per espiare colpe che non poteva e non doveva nemmeno conoscere. Il crimine che Shin “aveva commesso” era quello di avere uno zio fuggito, negli anni Cinquanta, in Corea del Sud. In Corea del Nord, infatti, è legale incriminare i cittadini in base ai legami di sangue e di parentela grazie ad una legge istituita nel 1972 dal “Grande Leader” Kim Il Sung che recita: “il seme dei nemici di classe deve essere estirpato attraverso tre generazioni”.

Il giornalista Blaine Harden ha messo ordine nei ricordi e nei racconti di Shin senza omettere i particolari più spaventosi, senza coprire – per inutili pietismi – le azioni più aberranti che lo stesso Shin ha dovuto commettere per sopravvivere, e senza mai smettere di ricordare che, in questo stesso momento, altri prigionieri le staranno commettendo. Perché anche l’orrore, non solo la pietà, può contribuire a scuotere l’opinione pubblica da quell’indifferenza che finora è stata la più preziosa alleata della dinastia dei Kim.

Illuminante, a questo proposito, un passo dell’Economist: Forse la portata delle atrocità è tale da anestetizzare l’indignazione. E’ molto più facile ridicolizzare il regime e le pazzie del suo leader piuttosto che affrontare realmente la sofferenza che quel regime infligge alla popolazione. Eppure sappiamo di omicidi, schiavitù, spostamenti forzati di popolazione, torture, stupri: la Corea del Nord commette praticamente ogni atrocità che rientri nella categoria “crimini contro l’umanità”.

Shin, però, continua a parlare e a mostrare, senza pudore, la sua schiena martoriata dalle ustioni e il basso ventre mutilato. Le caviglie deformate dai ceppi per tenerlo appeso a testa in giù durante l’isolamento. Le braccia piegate ad arco per i lavori forzati. Il dito medio della mano destra mozzato come punizione per avere fatto cadere una macchina da cucire. E non smetterà di farlo fino a quando i gulag della Corea del Nord non saranno smantellati e i prigionieri liberati.

Supernotes: “same same but different”.

Supernotes, Agente Kasper e Luigi Carletti, Mondadori.
Supernotes, Agente Kasper e Luigi Carletti, Mondadori.

La storia vera di uno “007” italiano. Un agente “irregolare” però, prima del Sismi e poi del Ros, protagonista di pericolose operazioni contro il narcotraffico. Un agente sotto copertura dal passato discusso (e discutibile), da giovane legato agli ambienti di destra ma “protetto” da una pericolosa deriva estremista dall’allora procuratore di Firenze Pierluigi Vigna. Quella dell’Agente Kasper è la storia vera dei tredici mesi di prigionia in Cambogia, tra caserme, ospedali-lager e il durissimo “centro rieducativo” di Prey Sar. Una prigionia che però, ufficialmente, per il Governo Italiano non è mai esistita e che l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini ha bollato, in una lettera ai familiari, come “l’arresto di un cittadino italiano residente all’estero in forza di un provvedimento di altro Paese straniero (gli Usa) per riciclaggio e reati fiscali”.

L’unica strada per quel “cittadino”, quindi, era quella di cavarsela da solo.

Ed è la strada che “Kasper” e il giornalista Luigi Carletti ripercorrono, ricostruendo i durissimi giorni della prigionia, i faticosi tentativi dell’avvocatessa Barbara Belli di sensibilizzare la diplomazia sul caso, il drammatico silenzio delle istituzioni, ma soprattutto l’oggetto dell’indagine che fu la causa di tutto: le Supernotes. Banconote da 100 dollari vere ma allo stesso tempo false (same same but different è il modo di dire dei protagonisti), stampate con macchine e clichet “autorizzati” in Corea del Nord con cui l’intelligence americana pagherebbe clandestinamente tutto ciò che ritiene necessario per la sicurezza nazionale (regimi canaglia, rivoluzioni, narcotrafficanti, spregiudicate operazioni sul campo) ma che all’opinione pubblica deve rimanere nascosto.

Scorrevole ma sempre ben circostanziato. In equilibrio tra la biografia e la spy story, ma soprattutto in equilibrio tra la cronaca e la teoria del complotto. Interessante.

Attualità di una vecchia sconfitta.

Il breve e appassionato libro di Ermanno Rea può essere considerato una parentesi del precedente Mistero Napoletano. Uno scritto approfondito, a metà tra l’inchiesta e il giallo, sulla storia di Guido Piegari, fondatore e intellettuale di riferimento del Gruppo Gramsci (attivo a Napoli dal 1940 al 1954) che nelle appassionate riunioni nell’aula IV della Facoltà di Lettere dell’Università di Napoli, discuteva ed elaborava idee dissonanti da quelle del PCI di Togliatti e, soprattutto, da quelle del Movimento per la Rinascita di Giorgio Amendola.

Ermanno Rea, Il caso Piegari, Feltrinelli.
Ermanno Rea, Il caso Piegari, Feltrinelli.

Piegari, in un documento del 1954, tratteggia quella di Amendola come un’organizzazione che si proponeva come autonomo centro di coordinamento di tutte le lotte e le rivendicazioni nel Sud Italia, quasi “concorrenziale” con il PCI nazionale, una sorta “mina vagante” che minacciava la compattezza dello stato al solo scopo di creare un vero e proprio blocco – al sud – di potere autonomo. Quello elaborato dal Gruppo Gramsci, invece, era un meridionalismo basato sull’integrazione politica dell’Italia nel segno dell’egemonia operaia alleata ai contadini e ai sottoproletari meridionali. Gli stessi termini – come mette giustamente in evidenza Rea – della polemica tra chi auspica un’Europa politicamente compatta (unica politica estera, unico centro decisionale) e chi la vuole disunita, frammentata in tanti stati ognuno dei quali intento esclusivamente al proprio tornaconto. Secondo l’autore fu anche lo stile del documento – lungo e francamente illeggibile – a spingere Togliatti ad avallare la tesi amendoliana (o meglio, a non prestare la dovuta attenzione alle istanze del Gruppo Gramsci) emarginando e condannando senza appello, fino all’espulsione dal partito, il “pazzo” Piegari.

Ho trovato particolarmente significativa – e in un certo senso “chiarificatrice” – la trascrizione di una risposta data all’autore da Ugo Feliziani, legato a Piegari da un’intensa amicizia, alla domanda su cosa fosse e volesse il Gruppo Gramsci: cerco di spiegarmi con un esempio. Quando uscì il film Senso di Luchino Visconti a me piacque molto. A gli altri, invece, piaceva Pane, amore e fantasia. La cultura comunista di allora tendeva insomma a rimuovere tutto quanto era oggetto di approfondimento e di ricerca a livello europeo solo perché non rientrava nel filone illuministico, non si iscriveva nella tradizione razionalistica.

La regola dell’equilibrio

Con “La regola dell’equilibrio” Carofiglio torna a dar voce al suo celebre personaggio, Guido Guerrieri. L’avvocato barese appassionato di pugilato è chiamato a difendere un suo vecchio compagno di studi, ora magistrato affermato e “in carriera”, accusato di corruzione.

Gianrico Carofiglio, La regola dell'equilibrio, Einaudi.
Gianrico Carofiglio, La regola dell’equilibrio, Einaudi.

Per quanto molto lontana dalle atmosfere da legal-thriller dei precedenti “capitoli” della serie (su tutti, per me, svetta “Testimone inconsapevole”), la penna di Carofiglio tiene sempre viva la storia, senza rinunciare alle lunghe e dettagliate (a volte eccessivamente) digressioni tecnico-legali, tratteggiando un’atmosfera diversa, più “raccolta”. Alla suspense si sostituisce, progressivamente, la riflessione personale, intima. Proprio per questo, però, le riflessioni di Guerrieri (attuale e intensa quella sull’ipocrisia del mondo giudiziario e, in un certo senso, della giustizia in sé) e i discorsi (o gli “scontri”) con l’amico-sacco che pende e oscilla al centro del soggiorno di casa risultano tormentati come delle vere e proprie indagini.

Non è un capolavoro, sia chiaro. Ma è sicuramente un libro da leggere, in cui spiccano le scenografie cittadine (gli scorci serali, la luce soffusa e accogliente di una libreria per nottambuli, una finestra affacciata sulle luci dell’aereoporto) che diventano, pagina dopo pagina, un luogo intenso e ideale.