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The program.

THE PROGRAMLance Armstrong è un truffatore. E infatti è come un cinico, spietato, presuntuoso e arrogante impostore che ci viene presentato nel film di Stephen Frears. Anche con i capelli radi e il volto scavato dalla chemioterapia. Anche – e soprattutto – nell’usare la malattia come vero e proprio trampolino per la gloria. Su questo, che poi è l’aspetto più rivoltante della vicenda, The program non fa sconti. Percorrendo però la strada della somiglianza fisica (nella locandina Ben Foster sembra il sosia dell’americano, ed è incredibile Jesse Plemons nei panni di Floyd Landis) e dell’estrema fedeltà al libro Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong del giornalista David Walsh, Frears ha semplificato troppo (se non cancellato del tutto) alcuni momenti della “storia” sportiva di Armstrong. Facendo così risultare fuori contesto le sequenze di gara e le immagini di repertorio, catapultando Armstrong e la sua squadra ai vertici del ciclismo mondiale all’improvviso, quasi per caso. Il texano invece, pur avendo vinto a sorpresa nel 1993 il campionato del mondo (che, si sa, nel ciclismo conta quanto il due di coppe quando regna bastoni) diventa “Lance Armstrong” nel Tour del 1995 quando, 2 giorni dopo la morte del compagno di squadra Fabio Casartelli, vince la tappa di Limoges tagliando il traguardo in lacrime mandando baci al cielo. Lance Armstrong è un truffatore, ma quella pagina di sport all’epoca commosse tutti (compresi quelli che sarebbero diventati i suoi più accesi detrattori). Tra arrivi in salita e spericolate discese il film ci racconta di uno spietato cannibale, implacabile e inarrestabile. Quanto fosse, invece, un coniglio travestito da leone si era chiarito agli occhi degli appassionati molto prima dell’indagine e della radiazione. Quando (Tour del 2000), nel pieno quindi della sua epopea-chimica, sul Mont Ventoux, dopo aver risposto con irrisoria facilità ai ripetuti attacchi di Marco Pantani, con gesti squallidamente plateali indicò al Pirata che, se avesse smesso di accelerare, lo avrebbe lasciato vincere.

Detto questo, fare un film sullo sport è impresa molto difficile (due sequenze con Ben Foster in lanciato in discesa a 80km/h sono quantomeno poco credibili), e The program, infatti, è un film sul sistema-Armstrong più che sul ciclista-Armstrong. Ma inseguire la somiglianza fisica dei protagonisti, l’attinenza tecnica (le bici Trek e gli interventi meccanici, ad esempio), i riferimenti alle competizioni (come la Freccia Vallone iniziale) e i dettagli quelli economici (US Postal, Nike, ecc.) e poi non sfiorare nemmeno questi questi due episodi è una colpevole approssimazione.

Insomma, mi aspettavo di più.

“Pompei”, il kolossal delle banalità.

Ci sono tanti modi per realizzare male un film storico. Si può lasciare un orologio la polso di un centurione o sbagliare la ricostruzione dei monumenti di Roma. Si possono armare le legioni come si trattasse di eserciti fantasy o i gladiatori come fossero cavalieri medievali.  Si possono semplificare e tagliare, per più o meno giustificabili ragioni di tempo, le vicende storiche. Errori grossolani, certo. Ma…

…ma poi c’è il talento di Paul W.S. Anderson, il regista di “Pompei”. Che shakera forsennatamente tutti i cliché cinematografici sull’antica Roma, semplifica fino a rendere inverosimile la storia della tragica eruzione del Vesuvio del 79 d.C. e regala al pubblico un rarissimo esempio di kolossal della banalità.

I primi 40 minuti sono la copia, ancor meno credibile, della prima serie di “Spartacus”. Gladiatori, addominali, bicipiti e botte da orbi in un viaggio tra la Britannia e Pompei talmente surreale da lasciare col fiato sospeso aspettando qualcosa che…dovrà pur accadere dopo simile preambolo. Si, aspetta e spera.

La battaglia nell’arena durante i giochi delle Vinalia con la riproposizione dello scontro tra ribelli Celti e milizie romane è spudoratamente copiata dal primo combattimento al Colosseo del “Gladiatore” Massimo Decimo Meridio.

Quando, finalmente, comincia a eruttare il Vesuvio e si potrebbe sperare in un riallineamento con la fedeltà storica, i lapilli sembrano i meteoriti di “Armageddon” e le navi che cercano di allontanarsi dalle coste vengono affondate da un bombardamento di fuoco che neanche in “Pearl Harbour”. Per finire con un inseguimento tra una quadriga e un cavallo degno di “Fast & Furious”.

Insomma, da evitare a qualsiasi costo.