Quante volte ho sbraitato contro l’immobilità politica del PD? Provo a ricordare, ma perdo subito il conto. Tante volte, sicuramente, negli ultimi anni, mentre si logorava in primarie territoriali, comunali, regionali, nazionali (in primarie delle primarie, a volte) mentre elettori, militanti e simpatizzanti, si aspettavamo provasse, almeno, a condizionare l’agenda del governo Monti. Tante volte, negli ultimi mesi, assistendo all’umiliazione in diretta streaming nel tentativo di pietire un precario sostegno al M5s. Tante volte vedendo “il compagno Fassina” parlare di riforma del lavoro, di diritti, di sindacati, e poi governare a braccetto con Brunetta. Tante volte, negli ultimi giorni, assistendo all’inutile recita di due leadership dimezzate: quella di Letta – il premier per caso, perchè non c’era niente di meglio – e quella di Renzi, stravincitore delle ennesime primarie ma, di fatto, ancora (anche di piu’) rifiutato da quella “minoranza della minoranza” che, inesorabile e immutabile, continua ad affollare di chiacchiere i circoli e le manifestazioni (probabilmente per esorcizzare il timore di non riuscire ad ampliare la già vastissima collezione di sconfitte). Per questo era necessaria (e, nel mio piccolo, auspicavo) una reazione politica. E piaccia o non piaccia, la si chiami #staffetta o sostituzione, forzatura o pugnalata, quella di Renzi è una mossa politica. Crudele? Può darsi. Dura? Sicuramente. Spregiudicata? Forse. Ma politica. Perché adesso è il PD che è chiamato ad essere protagonista e a tenere fede agli impegni dichiarati nel corso delle primarie e rilanciati nella direzione di giovedì. E’ dalla linea del PD che dipenderà quella del governo. Che può sembrare una ovvietà, ma non lo è. E finora, si è visto, la distanza tra i due ha portato solo all’ennesima tipologia di immobilismo. Però, per poterci riuscire, era necessario dimostrare di non avere paura dei “vecchi squali” alla Casini, pronti a gettarsi da una parte o dall’altra della mischia a seconda della legge elettorale che sarà approvata. Era necessario non farsi intimidire da Berlusconi, rilanciando invece di inseguirlo. Dimostrare di non temere il “logorio” di Palazzo Chigi in vista di presunte vittorie future. Piaccia o non piaccia, era necessario tornare a fare politica stando all’attacco. A me piace il calcio, molto. E so bene che giocare all’attacco non è mai garanzia di vittoria. Ma, di sicuro, senza attaccare non si segna. E senza goal non si vince.