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Schifo.

Valerio Verbano aveva 18 anni quando il 22 febbraio del 1980 rientrato da scuola è stato ucciso con un colpo di pistola alla schiena. A casa sua. Da tre militanti fascisti che, spacciandosi per “amici”, avevano immobilizzato la mamma, Carla, e il papà, Sardo.

Valerio frequentava il liceo Archimede ed era un militante di sinistra. Figlio dei “credo” ciechi di quegli anni, partecipava a scontri anche duri e viveva con impegno e abnegazione la sua militanza. Aveva realizzato un “dossier” sulle formazioni di estrema destra romane. Ma aveva 18 anni, e come tutti i diciottenni divideva la sua passione politica con altri interessi. La musica, la fotografia. La Roma.

Una rivendicazione arrivò dai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. Quelli di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, che in quegli anni misero a ferro e fuoco Roma. Carla, la mamma ha continuato per anni a cercare la verità sull’omicidio del figlio, sugli esecutori e sui mandanti, nonostante le indagini zoppicanti e gli indizi scomparsi. Ha scritto, con Alessandro Capponi, un libro bellissimo – che consiglio – “Sia folgorante la fine”. E’ morta nel 2012 senza conoscerla, la verità.

La storia di Valerio Verbano è una di quelle storie che non devono essere dimenticate. Per questo la Provincia di Roma gli ha intitolato un concorso per la presentazione di cortometraggi e progetti multimediali rivolto proprio a ragazzi. A Scampia gli è stata intitolata una strada e a Napoli, a Valerio e a Carla, è stato intitolato l’Auditorium di via Mezzocannone.

Nel 2006 a Roma, in occasione del 26esimo anniversario della morte, alla presenza del sindaco Veltroni, a Valerio è stata intitolata una via nel Parco delle Valli, a pochi metri dalla casa dove è stato ammazzato.

Stanotte questa targa è stata distrutta. Un’azione ignorante, carica d’odio.

Un’azione che fa venire i brividi.

Un’azione che non fa politica. Che non fa nessuna rivoluzione. Fa solo schifo.

Nomine, stipendi, competenze. La cultura e’ un settore “pro bono”?

E’ uno scandalo che il direttore di un importante ente di ricerca riceva uno stipendio? Assolutamente no, ci mancherebbe. Anzi. Lo stipendio dovrebbe essere anche direttamente proporzionale ai risultati raggiunti dall’ente di ricerca stesso. Convegni, pubblicazioni, analisi, borse di studio, biblioteche e archivi consultabili online sono un esempio di quello di cui, un direttore, si dovrebbe occupare. Non poco.

Poniamo il caso che questo ente di ricerca sia una fondazione costituita nel luglio 2009 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, sia presieduta dall’ex deputata Giovanna Melandri ed ospiti due musei (il MAXXI Architettura e il MAXXI Arte).

In questo caso la questione risulta un po’ più delicata.

Inanzitutto per la “storia” della nomina. Effettuata nel 2012 dall’ex Ministro per i Beni e le Attività Culturali Ornaghi, dopo il periodo di commissariamento – guidato dal segretario generale del Ministero Antonia Pasqua Recchia – a seguito delle dimissioni dei vertici (il presidente Pio Baldi, il vicepresidente Roberto Grossi, il consigliere d’amministrazione Stefano zecchi) per la mancata approvazione del bilancio per l’anno 2012 da parte del consiglio di amministrazione. Una situazione difficile, quindi, a cui hanno fatto seguito numerose polemiche (bipartisan) sulla scelta della figura dell’onorevole. Superato il limite dei 15 anni in parlamento, infatti, per una regola del PD Giovanna Melandri non sarebbe stata ricandidata. Scranno parlamentare perso, poltrona trovata. La cultura, dunque, si conferma come il Jurassik Park prediletto della politica nazionale o locale dove continuare a far “pascolare” dinosauri.

La questione risulta anche delicata perché, per sedare le polemiche, venne annunciato che la neo presidente avrebbe lavorato “totalmente gratuitamente”. “Pro bono” per rimanere sui termini utilizzati in questi giorni. Ecco quindi trovare giustificazione le polemiche attuali, visto che mercoledì, invece, il Consiglio di Amministrazione discuterà proprio dello stipendio del presidente.

Credo però sia sbagliato il taglio dato alla polemica. Il concetto che trovo incredibilmente irrispettoso, infatti, non è l’attribuzione dello stipendio ma è quello sintetizzato dai due avverbi “totalmente gratuitamente”. Irrispettoso perché ufficializza il concetto che in alcuni settori (e quello culturale la fa da padrone) si possa lavorare – anzi, quasi si debba – “gratis”. Per passatempo. Per passione. In barba agli studi, agli esami, alle abilitazioni professionali, ai sacrifici, alla gavetta che storici dell’arte, guide turistiche, archeologi e ricercatori sostengono durante la loro formazione. Che non è corta. e nemmeno facile, come invece sostengono in molti.

Trovo quindi normale che, vista la portata dei soggetti coinvolti, un giornalista come Gian Antonio Stella si occupi della questione sulle pagine del Corriere della Sera mettendo bene in evidenza tutte le contraddizioni e le superficialità. Trovo però altrettanto normale che il direttore di una fondazione di tal portata abbia uno stipendio. Che sia garanzia di impegno totalizzante ed esclusivo. Senza distrazioni. Stipendio, però, che deve essere in linea con i risultati raggiunti o gli obiettivi da raggiungere. Una soluzione l’ho proposta, inascoltato, tante volte: attribuzione di retribuzione variabile per direttori e manager basata su un budget predefinito con riferimento alla “regola” di Adriano Olivetta; attribuzione dei contributi statali in base all’analisi di progetti annuali (o biennali) di attività e sviluppo, progetti quadriennali in caso di ricerca (contributo anche per progetti pluriennali da erogarsi comunque in base a step annuali); verifica di ogni step e dei risultati raggiunti annualmente (l’eventuale non raggiungimento degli obiettivi prefissati deve comportare la riduzione su base percentuale del finanziamento all’ente per l’anno successivo e la riduzione dello stipendio della direzione e dei manager incaricati).

Quello che invece non trovo affatto normale e continua a stupirmi è la frequenza con cui dinamiche come questa – che, essendo di ambito nazionale, giustamente finisce sui giornali – siano la norma in ambito locale. Quante aree archeologiche, a Milano ad esempio, sono aperte gratuitamente dai volontari? In quante occasioni a Roma vengono affidate ai volontari giornate di apertura di spazi monumentali? Ho scelto come esempio queste due città non a caso, come simbolo di un’abitudine “bipartisan” (la Milano di Pisapia e la Roma fino a poche settimane fa di Alemanno). Se questo sistema continuasse a trovare terreno fertile potremo arrivare a vedere amministratori locali nominare appassionati di storia come propri consulenti per la valorizzazione del patrimonio archeologico o archeologi volontari diventare direttori di Musei locali. D’altronde, lo farebbero gratis. Per passione. Come la Melandri. Ma se alla passione si aggiungessero le competenze professionali, non sarebbe meglio? O qualcuno pensa che un ragazzo scelga, oggi, di studiare, formarsi, specializzarsi nelle professioni del settore culturale perché vede in esse facili possibilità di successo, carriera e arricchimento?

Vorrei la pelle nera

Si cantava nel 1967.

Anch’io vorrei, oggi, la pelle nera. Ma non una qualsiasi. Vorrei la pelle nera del ministro Cécile Kyenge. Vorrei la sua calma davanti alle continue provocazioni di cui è oggetto. Vorrei la sua prontezza di spirito.

http://www.repubblica.it/politica/2013/07/27/news/solidarie_a_kyenge_delrio-63810412/?ref=HRER1-1

“Con la gente che muore di fame e la crisi sprecare cibo così è triste”. Poche parole per colpire e affondare gli idioti. Poi – senza dubbio – si dovrà dirimere il nodo ius soli, limarne alcuni spigoli. Forse limitarne alcuni aspetti. Ma intanto, oggi: colpiti e affondati, idioti!