Ho visto (ammetto: casualmente, è del 2014) il documentario di Giancarlo Soldi “Nessuno siamo perfetti”, una lunga intervista a Tiziano Sclavi, il creatore di Dylan Dog.
L’indagatore dell’incubo può essere considerato a tutti gli effetti un’icona degli anni ’90. Immagino che molti, come me, che in quegli anni ne aspettavo trepidante le tre uscite mensili – l’inedito, la ristampa e la seconda ristampa, affinché i lettori più “giovani” (non per forza d’età) potessero completare la raccolta – se ne siano resi conto solo facendo i conti con gli scaffali della libreria satura di albi. Magari in occasione del primo trasloco, e della decisione da prendere sul destino di tutta quella carta. Decisione che inevitabilmente sarebbe stata quella di conservarli. D’altra parte, chi getterebbe nella spazzatura i propri anni perfettamente scanditi mese per mese, albo per albo, personaggio per personaggio, incubo per incubo…
L’alba dei morti viventi, omaggio agli affamati (e non cannibali, la differenza è sostanziale) zombie di Romero, I conigli rosa uccidono, tanto splatter da far ridere o Johnny Freak, commovente da far piangere. L’ispettore Bloch, il tonto agente Jenkins, Morgana, Xabaras. E le surreali (per me divertentissime) battute dell’assistente Groucho.
Il documentario racconta molto del mondo di Dylan Dog e tantissimo di quello del suo creatore, attraverso un continuo scambio di dolori, di crisi, di sofferenze. E’ lo stesso Sclavi a svelare, con la semplicità delle sue frasi, dei suoi gesti, dei suoi silenzi, quali e quanti incubi muovessero le fila di quelli che, mensilmente, finivano in edicola.
L’infanzia e la prima adolescenza in un paesino di Pavia, dove “ci si fermava a guardare passare una macchina”. Il rapporto conflittuale con la madre. L’alcolismo, le crisi depressive, la solitudine vissuta come condizione ineluttabile. “Il tempo speso a cucinare è tempo perso. Mangio solo un pezzo di formaggio, e un pezzo di pane. Una volta al giorno.” Parola dopo parola, il ritratto di Sclavi è quello di un grande artista carnefice di se stesso. Che ha scelto il silenzio artistico per proteggersi dalla sua sensibilità, dalla sua creatività, dal suo sentire “maudit”. Il documentario ci immerge in quel silenzio, in attesa di qualcosa che, allo stesso tempo, si rimanda. In tutto il tormento che ha riempito le tavole di centinaia di storie. Giuda ballerino!